UGO FABIETTI, Medio Oriente. Uno sguardo antropologico

 

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Ugo Fabietti, Medio Oriente. Uno sguardo antropologico, Milano, Raffaello Cortina, 2016

Recensione di Nicoletta Capotosti

Con questo prezioso libro, Ugo Fabietti mostra innanzitutto il valore di un approccio allo studio dei fenomeni antropologici che tiene insieme il piano diacronico dei cambiamenti socio-culturali con quello sincronico, più classico, basato sull'uso di categorie di cui anche la tradizione funzionalista si era servita. Molti altri i pregi del saggio: scritto magistralmente, è un'analisi - rara per criticità e complessità - della sfuggente e labile categoria di Medio Oriente. L'autore si mantiene, inoltre, saldamente sul terreno antropologico, pur mostrando, in molti passaggi, la necessità di ricorrere a una profonda conoscenza storica dell'area geopolitica indagata, e storiografica degli studi etnografici in essa realizzati.

In ultimo, tutti gli elementi richiamati, insieme alla diretta frequentazione dei luoghi studiati, permettono a Fabietti di spiegare, in modo scientifico, alcuni tipici errori interpretativi sulla cultura mediorientale, la quale è scandagliata con estrema attenzione alle diverse e numerose aree geografiche che la compongono.

Il libro - rivisitazione e aggiornamento di un precedente studio, (Culture in bilico. Un'antropologia del Medio Oriente, Milano, Bruno Mondadori 2002) - è un’opera imprescindibile per chi si occupi di studi storici e in particolare per chi insegni storia o filosofia (o altre discipline umanistiche); così come per chi si interessi del medio oriente da una prospettiva geopolitica o economica (ovvero non antropologica) o semplicemente per chi intenda rispondere all'interrogativo sul ruolo e sul senso dell'antropologia oggi.

Relativamente a quest'ultimo punto il libro risponde a molte delle numerose domande poste dal dibattito epistemologico sull'antropologia contemporanea, il quale - com'è noto - solleva dubbi sull'efficacia delle categorie antropologiche classiche nello studio della società post-globale. In questo genere di discussioni vediamo solitamente fronteggiarsi coloro che, in un modo o nell'altro, subiscono il forte condizionamento del decostruzionismo, e coloro che - difendendo strenuamente l'attualità del metodo etnografico - fanno fatica a liberarsi da retaggi positivisti.

Fabietti risponde ad entrambi con una seria ricostruzione delle rappresentazioni, interne ed esterne al mondo mediorientale, del Medio Oriente. Affrontando a tratti anche questioni di metodo (strategie di localizzazione e "zonazione"), egli procede con maestria al confronto tra numerose etnografie realizzate in area mediorientale, riconducendo l'esistenza di alcuni loro presupposti alle rispettive logiche storiografiche. A cominciare dalla categoria stessa di Medio Oriente. Nei primi due capitoli l'autore fornisce una ricostruzione completa degli interessi antropologici per quest'area geopolitica soffermandosi anche sulla spinosa questione di come il Medio Oriente sia un prodotto dell'Occidente. Fabietti sottolinea, alludendo alla nota e fortunata formula di Hobsbawm-Ranger (l'invenzione della tradizione), la differenza tra invenzione e costruzione del Medio Oriente: solo la prima include fattori extrapolitici come il sapere, l'arte e l'immaginario, dando ragione di una complessità che sfugge, per certi versi, anche all'importantissima analisi fatta Edward Said (Orientalismo 1978).

L'espressione Medio Oriente fu utilizzata per la prima volta da un storico navale americano in relazione agli interessi della Gran Bretagna, collocati in terreni per indicare i quali i termini estremo oriente e vicino oriente non erano adeguati. Oggi essa indica un'estensione territoriale corrispondente a quella raggiunta, in epoche successive, dagli imperi Umayyade, Abbaside, e Ottomano, e nella quale si presentano, «seppure con le debite differenze, dovute alla particolarità delle tradizioni locali, forme storiche di adattamento ricorrenti, tratti culturali riconducibili allo stesso sistema di significati, visioni del mondo differenti (spesso incompatibili ma riconducibili a radici storiche comuni), istituzioni sociali fondate sugli stessi principi etici e sui medesimi assunti pratici» (p. 15-16).

L’interesse dell'antropologia per il Medio Oriente è stato ritardato dalla tendenza di questa disciplina a prediligere lo studio delle società semplici in contrapposizione a quelle complesse (p.40). Quando gli antropologi iniziarono ad interessarsi al Medio Oriente, lo fecero superando quella che Fabietti definisce una "congiuntura epistemologico-disciplinare" provocata anche dalla divisione tra il campo filologico - terreno di orientalisti - e quello della cultura agita, di cui si sarebbero occupati gli antropologi. Questa separazione è oggi accantonata sebbene resti, ovviamente, una peculiarità del ragionamento antropologico, la quale riguarda «l'adozione di una prospettiva intenzionale specifica da parte del soggetto conoscente, che consiste nel tentare - senza mai riuscirci del tutto - di astrarsi dalle proprie categorie culturali per stabilire un 'ponte' concettuale con l'alterità» (p.41). Ciononostante Fabietti non nega che i primi lavori dell'antropologia sul Medio Oriente furono condotti un po' all'insegna di quelli di americanisti oceanisti e africanisti, adottando cioè un'ottica che pone in secondo piano quegli aspetti della società mediorientale che fanno di essa una società complessa (p. 53). In questo senso possono essere individuate tre principali prospettive antropologiche sul Medio Oriente: tipologica, tendenzialmente basata sull'immagine del mosaico per descrivere quest'area culturale; la prospettiva regionale, consistente «nello studio del modo in cui i gruppi, per comunità, le istituzioni identificabili all'interno di un contesto regionale prescelto sono interrelati» (pp. 54-55); e infine il modello delle interfacce culturali, «ovvero i punti in cui le varie componenti di una società e di una cultura entrano in contatto, si sovrappongono e si intrecciano con le componenti di altre» (p.55).

Tra i nuovi approcci allo studio, Fabietti cita e tratta lo studio dei programmi televisivi come punto di osservazione e di analisi di culture regionali. Sia alla televisione sia ad internet, va ascritta la diffusione di movimenti di protesta, ma anche quella di fondamentalismi e di violenza. Su questo, in particolare, l'autore segnala come il coinvolgimento di giovani, non solo musulmani e spesso residenti in Occidente, evidenzi l'inadeguatezza di un'immagine territorializzata dell'Islam.

Molto illuminanti gli esempi tratti dagli studi di Abu-Lughod. Il caso di Amira, in particolare, mostra come - a volte - la drammatizzazione della propria vicenda di vita, operata secondo modelli proposti dalla televisione, non abbia come esito l'adozione di stili comportamentali preconizzati e voluti dai programmatori; piuttosto conduca a costruire la propria soggettività in conformità a quella che Appadurai definisce modernità parallela (p. 63). L'antropologia oggi, occupandosi del Medio Oriente tende ad adottare la prospettiva che lo considera sotto la categoria molto ampia di 'comunità islamica' (p.71).

Tuttavia molti e differenti sono i possibili utilizzi di classici strumenti dell'antropologia tradizionale al fine di comprendere la natura delle relazioni interpersonali. Di particolare interesse è l'applicazione dei modelli della parentela a tale scopo. Il quarto capitolo presenta - in ottica sincronica - due esemplificazioni. In primo luogo come - nel caso di quella mediorientale - la terminologia di parentela confermi l'ipotesi, fatta da John Gulick, di un ethos dell'insicurezza ovvero, con le parole di Fabietti, «di un complesso di motivi di ordine sociale e culturale che inibiscono agli individui il raggiungimento di mete che pure quegli stessi individui ritengono legittime e auspicabili» (p.87). L'altro esempio mostra l'incidenza della discendenza patrilineare nella strutturazione dei rapporti interpersonali e sociali in genere, connotati, nel caso delle unioni matrimoniali, dall'atipico modello endogamico, a sua volta funzionale - non lo si potrebbe comprendere senza l'uso della teoria antropologica - all'organizzazione segmentaria della società.

Proprio sul modello segmentario, Fabietti si sofferma, dandone una spiegazione che muove dalla duplicità (ideologica e metodologica) del termine tribale il quale, storicamente ha consentito di circoscrivere il campo di studi dell'antropologia, indicando le cosiddette società primitive, o semplici (in virtù, appunto della loro organizzazione segmentaria). Fu Evans-Pritchard a dimostrare che forme di vita complesse possono esistere anche presso società prive di un sistema politico centralizzato. Ma a mettere in crisi l'immagine monolitica e segmentaria delle società mediorientali furono gli sviluppi legati alla nozione di "tribalismo":

«se ciò che gli antropologi chiamavano tribù (limitando questa definizione a aggregati sociopolitici privi di autorità centrale e permanente e fondati sulle relazioni parentali intercorrenti tra i segmenti che le componevano) era una risposta alla pressione esercitata su certe comunità da un potere politico centralizzato (protostatuale o statuale), com'era possibile considerare primitive le società tribali? E soprattutto, com'era possibile ritenere la tribù una forma di organizzazione della comunità storicamente anteriore agli stati?» (p.116).

L'autore - ricorrendo a indagini etnografiche sulle nozioni di qaraba (Marocco), hamula (Palestina) fukhuduh (Penisla arabica), qawm (Afghanistan), Gerry (Somalia), baluchistan (Iran) - frappone la parentela vissuta a quella rappresentata (129).L'analisi è qui spinta al fondo della specificità antropologica; la trattazione dell'etnicità (capitolo settimo) supporta lo svolgimento degli ultimi tre capitoli dedicati rispettivamente ai seguenti temi: ”nodi mediorientali", il rapporto politica e religione in Arabia Saudita e una bellissima tematizzazione del fenomeno religioso, centrata sui concetti di universalismo particolarismo e fondamentalismo, per la comprensione dei quali risulta indispensabile assumere una prospettiva che muova dal carattere deterritorializzato della religione nell'epoca contemporanea.