R.MALIGHETTI – A.MOLINARI, Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta

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R.MALIGHETTI – A.MOLINARI, Il metodo e l’antropologia. Il contributo di una scienza inquieta, Milano, Raffaello Cortina, 2016.

Recensione di Nicoletta Capotosti

Questo lavoro costituisce un importante contributo alla ricerca essendo, al tempo stesso, un vero dono fatto agli studenti, ai quali esso è espressamente dedicato.

Mancava nel campo dell'epistemologia - lo afferma con chiarezza Silvana Borutti nella sua acuta prefazione - una ricerca che ricostruisse i diversi paradigmi epistemologici attraverso i quali l'antropologia ha modellato il proprio sapere e elaborato il proprio statuto scientifico.

Dalle parole con cui la Borutti invita alla lettura di questo libro, emergono due utili considerazioni. Innanzi tutto, ogni cambio di paradigma da parte degli antropologi, ha prodotto, nel corso della storia, una nuova concezione dell'esperienza antropologica. Quei paradigmi - detto per inciso - solo in rari casi sono stati espressione di altrettante filosofie della scienza; raramente, infatti, gli antropologi hanno fatto corrispondere alle proprie posizioni metodologiche una riflessione epistemologica. È di questo scarto tra il semplice utilizzo e la giustificazione epistemica di metodi e procedimenti che i due autori di Il metodo e l'antropologia si fanno carico per attuare una riflessione di fatto metateorica sull'antropologia.

La seconda considerazione riguarda la strutturale tendenza dell'antropologia ad oggettivare l'altro. Ad essere chiamata in causa è la scrittura etnografica, strumento metodologico caratterizzante la disciplina e sulle cui ragioni epistemologiche - come notano gli autori nell'introduzione (p.7) - la tradizione avrebbe steso un velo di omertà (omertà procedurale).

Sorge quindi una prima domanda cruciale: è possibile tenere separata la volontà di potere occidentale dal rapporto di potere che è l'Occidente?  Tale domanda si incardina, inoltre, in una specie di paradosso: dal momento che il positivismo connette lo statuto dei saperi al carattere unificante della civilizzazione occidentale e all'oblio del proprio carattere storico (e quindi della differenza in rapporto ad altre forme di civiltà) come può questo orientamento costituire un ideale regolativo per l'antropologia, ovvero per quel sapere che si basa esattamente sul confronto e sull'incontro con altre civiltà?

Si fa allora strada l'ipotesi che solo qualora l'etnografia si liberi dal giogo del presupposto positivista, le sarà consentito di interrogarsi sui criteri di validità del proprio metodo, potendo addirittura trainare le altre scienze umane in questa manovra epistemologica (p-18).

Ecco allora che l'auto-indulgenza degli antropologi rispetto all'omertà di cui si parlava assume - per il lettore - le sembianze di una capacità visionaria che fa dell'etnografia e della sua indeterminatezza epistemologica - l'avanguardia di un ribaltamento prospettico: «l'indecisione metodologica dell'antropologia appare il riflesso di una domanda sul soggetto conoscente» e «le difficoltà definitorie dell'etnografia, in luogo di carenze disciplinari possono essere ritenute i segni di un'ambiguità strutturale che interpreta le scienze umane nel loro complesso» (Ibid.).

La svolta paradigmatica che avrebbe reso possibile questo passaggio coincide in antropologia con l'interpretativismo di Geerz, in cui «ciò che per il positivismo è un limite, diviene condizione di possibilità: il soggetto interpretante è vincolato a un orizzonte storico e linguistico, ma proprio per questo è in grado di stabilire una relazione comprendente col proprio oggetto». (pp13-14).

In linea con l'approccio ermeneutico, il comprendere è qui concepito in senso ontologico e non solo epistemologico. Si profila cioè una rifondazione del Soggetto che diviene «il primo prodotto del metodo» (p.13).

Con queste premesse Malighetti e Molinari svelano immediatamente al lettore la prospettiva su cui l'intera analisi sarà impostata. Tale procedimento, insieme allo stile impeccabile, è uno dei maggiori pregi del lavoro, il quale si sviluppa passando in rassegna le numerose scuole antropologiche, e ne esplicita i presupposti mettendole in costante relazione con il modello oggettivante della scienza moderna.

Quella carenza di consapevolezza epistemologica, che la si legga come un limite o come una risorsa, di certo ha attraversato tutta la storia della disciplina, riflettendosi ancora oggi sull'insegnamento accademico: all'enorme influenza del dibattito postmoderno sulla discussione interna ai movimenti teorici, non corrisponde il tentativo di indagarne le ripercussioni sulla pratica etnografica. È forse anche per questo che gli studenti fanno spesso fatica a rappresentarsi le implicazioni operative di alcune svolte teoriche. Non è quindi un caso che questo libro sia dedicato a loro.

La trattazione ricalca la storia dell'antropologia proponendone un'originale partizione in tappe metodologiche indicanti il progressivo distacco dal metodo positivista: i questionari, il lavoro sul campo, l'osservazione partecipante, il circolo ermeneutico e antropologie del corpo. È facile intravedere, nella linea tracciata, la presenza di un flesso in corrispondenza dell'interpretativismo,  teoria la cui valenza rivoluzionaria è condivisa unanimemente dagli studiosi; non ultima l'interessante ricostruzione proposta da M. Pavanello in Fare antropologia (Zanichelli 2010), dove l'autore, seppure con intenti meno sistematici rispetto ai Nostri, spiega in modo altrettanto perspicuo, l'appartenenza dell'osservazione partecipante malinowskiana all'orizzonte filosofico e  metodologico del positivismo.

Ricca di apporti essenziali all'evoluzione dell'antropologia, l'osservazione partecipante costituisce l'approdo dell'etnografia alla sua propria natura: superato il primo stadio, quello degli antropologi da tavolo sempre più abili nella formulazione di questionari, con le Notes and Queries, il metodo si avvicina progressivamente alle scienze esatte (p.50). Il primo segmento di questo itinerario vede l'antropologia istituzionalizzarsi e gli studiosi teorici andare sul campo a raccogliere le informazioni. È la stagione delle spedizioni sullo stretto di Torres, capeggiate da Haddon, in cui gli autori vedono le basi della metodologia malinowskiana. Il ruolo dell'osservazione partecipante nella storia dell'antropologia è quindi duplice: se per la pratica etnografica essa rappresenta una vera rivoluzione, da quello epistemologico i suoi caratteri si pongono in continuità con il modello positivista, al quale si approssima in modo significativo.

Ciò che più colpisce di queste pagine è la straordinaria dovizia di particolari relativi alla produzione degli etnografi. Gli autori forniscono dettagli e indicazioni sui procedimenti seguiti nell'elaborazione dei dati che molto raramente si trovano nei manuali di antropologia. Di estremo interesse, ad esempio, è l'immagine di Malinowski pioniere della “cosiddetta antropologia at home”.

È sulla stessa linea la presentazione della rivoluzione geerziana: anche qui sono indicati con puntualità i riferimenti epistemologici i quali però - rimandando a dispositivi teoretico-filosofici di particolare complessità - avrebbero necessitato di un approccio più didascalico. È bene tenere conto del fatto che la logica positivista è fortemente radicata nel senso comune, oltre a sopravvivere nell'immaginario scientifico degli scienziati di professione. Non altrettanto può essere detto della fenomenologia husserliana o dall'analitica esistenziale heideggeriana, entrambe necessarie all'approccio nook-and-cranny, così come ai modelli tratti dall'incorporazione.

Gli antropologi contemporanei necessitano quindi di confrontarsi in modo diretto e profondo con la filosofia, atteggiamento che non è affatto incentivato dai piani di studio predisposti nelle università italiane. Geerz, d'altra parte, costruendo la sua visione del metodo sulla base di suggestioni tratte dai più svariati orientamenti filosofici, non offre una via solida in cui avventurarsi per un serio approfondimento di questi stimoli.

Malighetti e Molinari sintetizzano in modo storiograficamente ineccepibile il contributo dato da questo antropologo tenendo fermi almeno tre punti: il respingimento geerziano di ogni matrice positivista (incluso il tentativo neoempirista); il ripristino di una connotazione storica del setting etnografico, il quale vede l'osservatore e l'osservato coappartenere all'evento storico della precomprensione; e l'appartenenza ad un orizzonte linguistico/ comunicativo della proposta interpretativista. Quest'ultimo punto significa che Geerz esclude la possibilità di immedesimazioni empatiche. Egli affida l'elaborazione di una “nuova diagnostica” all'“inferenza clinica” la quale, in luogo di ricavare il generale da casi concreti, lo fa emergere - contemplando eccezioni ad esso e attribuendogli valenza probabilistica - dal contrasto tra somiglianze e differenze (p.145). Debitrice della teoria degli atti linguistici e più propriamente della distinzione tra atti illocutivi e atti perlocutivi, la thick description non può sottrarsi al sottile e fragile criterio della “funzione dell'autore” (Cfr. Opere e Vite).

Il libro si chiude con un capitolo dedicato all'illustrazione delle teorie che fanno dell'incorporazione uno strumento portante del metodo etnografico. Basandosi su una concezione fenomenologica e antilogocentrica (Derrida) della corporeità, esse propongono un diretto e fattivo coinvolgimento del ricercatore sul campo e un'interazione concreta con i soggetti studiati (p.193). Il loro presupposto è che il corpo sia un simbolo incarnato delle società (p.195), un veicolo di conoscenza (ivi.). L'inclusione della corporeità, però, complica ulteriormente - secondo gli autori - il quadro epistemologico dell'antropologia, già messo alla prova dalla scrittura, alla quale l'etnografia affida inesorabilmente la propria attendibilità.