CARLO SCOGNAMIGLIO, Insegnare la catastrofe

 

Carlo Scognamiglio, Insegnare la catastrofe, Roma,Stamen, 2017

Recensione di Nicoletta Capotosti

 

Lo spazio che un buon lettore preferisce ricavarsi (…) sta fra lo scritto e noi stessi (…), fra i personaggi della storia e l’io di te, quello segreto, quello pericoloso e disgraziato, folle e criminoso, la creatura spaventosa insomma, che tieni imprigionata sempre nel profondo di te stesso, nella cella di isolamento più buia, così che nessuno al mondo possa mai sospettarne l’esistenza…

Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 46-47.

L'aneddoto che dà origine a questo libro di Carlo Scognamiglio è il nodo attorno a cui ruotano gli interrogativi che ogni vero insegnante reputa tra i più urgenti: fino a che punto il trasferimento di contenuti disciplinari e di conoscenze è in grado di stimolare una crescita complessiva della persona? Quali sono le strategie pedagogiche più adatte a far sì che ogni studente possa tradurre quelle conoscenze in competenze utili alla formazione di una propria visione etico-morale?

Se questi dilemmi ricorrono per qualunque contenuto di insegnamento, essi risultano prioritari nella trattazione a scuola di tematiche che pongono l'individuo di fronte all'orrore assoluto, assurdo e muto. L'autore risponde. E lo fa senza cedere alla retorica né a soluzioni facili o definitive.

Partendo con T. Adorno dalla considerazione che il campo di sterminio sia un dato di rottura culturale dove la filosofia può al massimo essere «ricondotta a dialettica negativa, la poesia ammutolire, la musica risuonare dissonante», Scognamiglio dichiara subito il dovere - da parte degli insegnanti - di trattare la Shoah a scuola: proprio perché questo evento della storia ha «un impatto dirompente sull'idea di una morale possibile (…) sul piano educativo, il ruolo del nostro essere umani nella ricomposizione di un orizzonte etico condiviso può e deve essere il centro di ogni discorso metodologico» (pp.19,20).

La questione non è quindi se insegnare la Shoah, bensì come farlo.

Il primo passo da compiersi è prendere una posizione rispetto al seguente «rovello pedagogico: esiste una didattica identitaria contrapposta a una visione universalizzante nel categorizzare la Shoah?» (p.22). La risposta è di Shulamit Imber, direttrice dell'International School for Holocaust Studies allo Yad Vashem di Gerusalemme: il genocidio ha una dimensione universale. E non solo; Scognamiglio ritiene che tale presupposto vada sviluppato didatticamente ricorrendo anche a «dinamiche psicosociali o di contesto, come preferisce sottolineare Yael Richler (docente allo Yad Vashem) che hanno condotto i carnefici a divenire tali» (p.26). Per fare questo - qui si ritiene venga dichiarato il cardine dell’argomentazione sviluppata da Scognamiglio -, «è necessario aiutare l'allievo a raggiungere con consapevolezza, e non solo emotivamente, il potenziale carnefice che è dentro di lui» (ivi). In questo senso l'autore giudica utile l'approccio psicosociale al quale egli ha dedicato studi approfonditi (condensati in un recentissimo articolo dal titolo La normalità del mostro a dieci anni dall’‘Effetto Lucifero’, pubblicato in Micromega 8/2017, pp. 199-210) e,  non senza considerare tutti i possibili rischi o limiti di un suo utilizzo in campo pedagogico (p,28), egli riserva alcune pagine alla descrizione degli esperimenti di R. Browning, P. Zimbardo, S. Asch, S. Milgram e A. Bandura (secondo capitolo). Approfondendo quindi l'ipotesi che «chi si trova nelle condizioni di anonimato percepisce uno scarico di responsabilità del proprio comportamento che facilita la trasgressione di norme morali» (p.46), ad essa vengono ricondotti i più comuni e diffusi fenomeni di bullismo (p.47), letti quindi in un’ottica di conformismo. L'analisi è chiara e accurata (come nel caso della documentazione relativa al Battaglione 101, differentemente interpretata da R. Browning e D.J. Goldhagen); i suoi esiti non univoci ma fecondi: anche su un piano storico, è decisivo partire dall'autocritica, interrogando (con Z. Bauman) i legami tra Olocausto e modernità (p.57-59).

Il terzo capitolo del saggio offre utili spunti per parlare ai bambini della Shoah. Muovendo dall'esperienza del già citato Yad Vashem di Gerusalemme, l'autore esplora anche ulteriori tentativi degni di attenzione (ad esempio, La valigia dei destini incrociati di A. Izzi,).

Il tema del quarto capitolo invita i docenti a inoltrarsi, insieme ai propri allievi, dentro le contraddizioni e le ambiguità di cui il fascismo italiano si è fatto portatore nel processo di annientamento degli ebrei d'Europa. Con un'agile e puntuale ricostruzione di alcuni nodi cruciali, Scognamiglio mira a ridimensionare il luogo comune di una sostanziale estraneità del fascismo all'ideologia antisemita (pp.59-60), indicando anche due probabili pilastri di una politica deliberatamente intenzionata a costruire un "artificiale" antisemitismo italiano: lo sforzo demografico e l'imperialismo verso l'Africa. All'impegno di alcuni intellettuali italiani nel teorizzare l'inferiorità mentale degli africani (a questo proposito viene citato l'antropologo Lidio Cipriani, p.79), seguì infatti lo scoraggiamento di mescolanze tra coloni e indigeni. Parallelamente a questa pista, l'autore propone altri sentieri, battendo i quali anche la posizione di Mussolini rispetto all'antisemitismo emerge in tutta la sua ambiguità (pp. 72-78).

Il capitolo conclusivo è dichiaratamente incardinato sul concetto di complessità. Compito dell'insegnamento è praticare questa categoria innalzandola a strumento metodologico, «facendo evolvere gli studenti dalla condizione minorata della semplificazione» (p.86). L'autore lo fa su vari livelli, assumendo un filtro caleidoscopio nella trattazione di alcuni temi cruciali per una didattica della Shoah; la costruzione dei ghetti d'Europa ci è mostrata come risultato di una "decisione latente", in cui numerosi sono gli elementi determinanti. Le stesse reazioni delle vittime sono descritte e classificate (sulla base delle analisi condotte da B. Bettelheim) secondo un criterio psicosociale dove l'interesse di Scognamiglio non è tanto quello di ricondurre i comportamenti all'estrazione sociale - lettura certamente suggestiva ma cautamente definita azzardata(p.93) - quanto quello di mostrare le numerose varianti nel vissuto di un'esperienza condivisa. Molti, tra i prigionieri politici, vissero la condizione subita traendo sostegno dal pensiero che «quanto più forti fossero quei maltrattamenti tanto maggiore doveva risultare la loro pericolosità come detenuti e dunque l'importanza della loro causa» (P.94). Altri (nella ricostruzione di Bettelheim i reclusi non politicizzati della piccola borghesia), «ritenevano giusta la condotta della Gestapo, ma non giustificavano il fatto che potesse ritorcersi contro loro stessi». Un’ulteriore reazione, anch’essa piuttosto diffusa, induceva i soggetti a trarre una sorta di «"lenitivo psicologico" dalla parità di tutti i detenuti rispetto ai maltrattamenti ricevuti» (p.95). Secondo Bettelheim si tratterebbe in questo caso di persone appartenenti alle classi più povere. Non mancarono coloro che «finirono addirittura per acquisire, per la prima volta nella loro vita, l'ideologia razzista nazionalsocialista» (p.97).

Il saggio si conclude con una problematizzazione del concetto stesso di testimonianza (nella formulazione datane da Paul Ricoeur) e, mostrando come esso sia messo in crisi dalla Shoah, l’autore affida di nuovo la parola a protagonisti diretti (in questo caso Primo Levi e Max Mannheimer).

L'esito di questo decisivo passaggio è la rilevazione di una "zona grigia" (I sommersi e i salvati di P. Levi), “un orizzonte dell'incerto” che persiste anche tenendo ben ferma la distinzione tra vittime e carnefici (p.103). Concordando con l'ottima e ampia accoglienza riservata dal pubblico a questo libro - molto commentato anche in contesti istituzionali (la prefazione è scritta da A. Piperno dirigente tecnico MIUR, che da anni si occupa di didattica della Shoah) - si vuole porre in evidenza la via che Scognamiglio traccia, facendola insinuare tra le righe di questo saggio, pur senza nominarla in modo esplicito.

Per avviarsi sul sentiero di una complessità in grado di trattare fenomeni storici che, come l’Olocausto, «è difficile ma necessario decifrare» (p.117), ognuno deve partire da se stesso, e dalla parte più criminosa di sé. Potremmo dirlo con le parole di Amos Oz citate in esergo: lo spazio che il buon lettore preferisce ricavarsi fra i personaggi della storia e il proprio sé, è quello segreto, quello pericoloso e disgraziato, folle e criminoso. In tale spazio si troverà l'abisso della complessità evocata da Scognamiglio. Ciascuno, partendo da sé, potrebbe quindi incamminarsi sul tracciato indicato dall’autore: gli italiani di fronte alle responsabilità del fascismo (capitolo 4); i tedeschi prendendo atto di come l'antisemitismo sia stato per molti un ascensore sociale (p. 90); i docenti adottando l'auto-confutazione come metodo e praticando indefessamente la ricerca (p. 86); gli intellettuali pensando a chi, per opportunità, pur non condividendo l'ideologia, non ha reagito ad essa (pp. 33-34); addirittura le vittime o i loro discendenti pensando a coloro –tra i detenuti - che emularono i carnefici (p. 97).

Infine la modernità tutta, guardando al genocidio come prodotto di una razionalizzazione e di un'ingegneria sociale fuori controllo (p. 59).

Solo dando questo esempio - sembra dirci l'autore – gli adulti potranno accompagnare i giovani alla consapevolezza del carnefice che è in loro, condizione per ricomporre un orizzonte etico condiviso, nonostante la Shoah.