ALICE BARALE, Il giallo del colore. Un'indagine filosofica

Il giallo del colore. Un'indagine filosofica - Alice Barale - copertina

 

Alice Barale, Il giallo del colore. Un’indagine filosofica, Milano, Jaca Book, 2020

Recensione di Salvatore Grandone

La natura del colore è uno di quei problemi filosofici che ritorna in modo costante nel pensiero occidentale. Si tratta in effetti di un tema che presenta larghe risonanze, perché considerato, a giusto titolo, come luogo esemplare da cui partire per elaborare una teoria del rapporto mente-corpo. Il giallo del colore è dunque non solo un libro sul colore, ma anche un testo che si interroga su grandi questioni gnoseologiche ed epistemologiche.

Il volume si divide idealmente in due parti. Nella prima Alice Barale prende in esame le diverse ipotesi formulate in ambito angloamericano sul colore. L’autrice individua pregi e difetti dei maggiori orientamenti: si sofferma in particolare sull’“eliminativismo”, sul “relazionalismo” e sulla sua variante “disposizionalista”, sul “fisicalismo” e sul “realismo”.

Così Barale riassume le diverse prospettive:

«Che cos’è il colore? Su questa domanda […] le posizioni si dividono, e gli stessi studiosi a volte passano nel corso della loro vita da un “campo” all’altro. Il colore può essere inteso come reale oppure, contro ogni senso comune, come irreale (eliminativismo). Quando è ritenuto reale, inoltre, il colore può essere considerato come qualcosa che dipende sostanzialmente dal rapporto con un osservatore (relazionalismo), oppure come proprietà degli oggetti, la cui natura non dipende da noi. In quest’ultimo caso, si pone però il problema di comprendere che tipo di proprietà degli oggetti il colore è. Il fisicalismo […] risponde identificandolo con le proprietà fisiche delle cose. Non è questo però l’unico modo in cui può essere pensata l’esistenza oggettiva e indipendente del colore. C’è un altro tipo di posizione filosofica che considera i colori “indipendenti dalla mente”, ma irriducibili alle descrizioni della fisica. È questa la prospettiva che va sotto il nome di “realismo ingenuo” nei confronti dei colori» (p. 51).

Dalla disamina emerge come la questione del colore metta in gioco tre livelli: le cose, la percezione e la dimensione linguistica. In altri termini, si tratta di ripensare da un punto di vista privilegiato e alla luce della scienza e della filosofia contemporanee il nodo mai sciolto del rapporto linguaggio-pensiero-realtà. Barale non è alla ricerca di facili soluzioni e mostra come ovunque si assolutizzi una sola dimensione sia facile cadere in contraddizioni o in visioni parziali. Ad esempio, se da un lato relegare il colore nella sfera del soggetto percipiente sembra comportare una vantaggiosa semplificazione, dall’altro diventa così impossibile spiegare l’interna legalità dei fenomeni cromatici. Allo stesso modo, le solide basi scientifiche della prospettiva fisicalista non riescono da sole a colmare lo scarto tra la struttura dei fenomeni cromatici e quella dei fenomeni fisici (p.48).

È forse anche alla luce dei limiti riscontrati in queste posizioni che l’autrice intraprende nella seconda parte del volume un percorso interdisciplinare, in cui l’interrogazione filosofica dialoga con l’arte e con la storia. Attraverso un’interessante analisi delle opere di Velasco Vitali e delle indagini storiche di Michel Pastoreau, la studiosa sottolinea il ruolo della componente storico-culturale e del vissuto nella percezione del colore. Sebbene questa nuova prospettiva abbia il merito di dare il giusto peso a un fattore spesso trascurato nella filosofia angloamericana, Barale giunge alla condivisibile conclusione che neanche questo approccio è sufficiente per risolvere l’enigma del colore. «Il colore – osserva Barale – non può essere concepito […] come prodotto puramente culturale, stabilito per convenzione» (p. 133). Per uscire da queste impasses, Barale si sofferma sulla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein e sulle considerazioni espresse dal filosofo austriaco in Osservazioni sui colori. Se si interpreta – come è ben visibile nell’ultimo Wittgenstein – il gioco linguistico come “forma di vita” e non come mera regola stabilita da una comunità parlante, la riflessione sul colore può trovare un fertile terreno «nella tensione che si instaura tra i concetti puri […] e il movimento della vita – in quel “confine tra logica e empiria” che è necessario abitare perché i nostri concetti si rivelino fecondi» (p. 152). Le domande non devono quindi risentire dei pregiudizi di scuola o disciplinari. È la deterritorializzazione, con le sue incursioni profonde nei sentieri dell’arte, della fisica, delle neuroscienze e della storia, l’unico modo per trovare il centro di un’autentica riflessione filosofica sul colore. Il giallo del colore offre in tal senso anche un’importante lezione di metodo.