DAVIDE POGGI (a cura di), Traiettorie di pensiero. Prospettive storico-teoretiche di riflessione e di ricerca

 

 

Davide Poggi (a cura di), Traiettorie di pensiero. Prospettive storico-teoretiche di riflessione e di ricerca, Verona, Quiedit, 2020

Recensione di Pasquale Vitale

Traiettorie di pensiero. Prospettive storico-teoretiche di riflessione e di ricerca, a cura di Davide Poggi, edito da Quiedit 2020, è un volume nato in seno al Centro “Ricerche di Gnoseologia e Metafisica” del Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona e raccoglie una serie di contributi frutto dei cicli laboratoriali attivati tra il 2018 e il 2019 che, come afferma il curatore, rappresentano “delle frecce per i cacciatori del presente” (p. 9).

Traendo spunto da una delle immagini più suggestive dell’Essay di Locke, Poggi si rifà all’immagine del “filosofo cacciatore” (p.7) che, nella spasmodica tensione verso la sua preda (la conoscenza), manifesta paziente ricerca dei dettagli, l’attenta osservazione, la corretta interpretazione dei segni (p.8). Cacciare, come ha sottolineato Valbusa in una sua monografia su Jaspers, è “ascoltare la natura stessa e imbattersi nelle sue meraviglie” o anche, come suggerisce l‘immagine di Diana nel dipinto della scuola di Fontainebleau, è tendere l’arco, calcolare la giusta misura e scagliare la freccia. Alla luce di queste definizioni, l’ars venatoria diventa (in senso logico, naturalistico e scientifico) ars inveniendi, cioè un ponte capace di stabilire una relazione tra la filosofia e un Philalèthe - colui che ama il vero per il vero- (p. 8). Gli autori del volume, cacciatori dei nostri tempi, scagliano “traiettorie di pensiero” in funzione dei “cacciatori del domani", che si lanceranno all’inseguimento delle frecce scagliate. Difatti, non è la preda a rappresentare il vero senso dell’impresa conoscitiva, ma la necessità di focalizzarsi sul metodo, che dal greco significa “ritornare indietro” per ricercare e investigare.

A lanciare la prima freccia, foriera di inseguimenti e ulteriori ricerche, è il contributo di Ferdinando Luigi Marcolungo dal titolo Giuseppe Zamboni e la “Critica della ragion pura” di Kant. L’obiettivo dell’articolo è far luce sul complesso confronto tra Zamboni (tra i fondatori della Rivista di filosofia neo-scolastica) e Kant. Proprio la lettura non dogmatica della filosofia kantiana, cioè la tendenza a separare, i semi (i nuclei teorici importanti) dalla pula (i dogmatismi) portò il professore antipositivista e potremmo dire “filosofo cacciatore” a scontrarsi, tra gli altri, con Gemelli e Olgiati, strenui difensori del realismo tomista. La crisi del positivismo aveva fatto riemergere le posizioni legate all’idealismo e dunque al pericoloso fenomenismo kantiano. Partendo da questa premessa, Marcolungo evidenzia come Zamboni abbia saputo da un lato rimproverare a Kant la riduzione del contenuto dell’esperienza all’esserci, e dunque la messa tra parentesi della struttura ontologica del reale (con il fine di dar vita a un Io puro conoscitivo, frutto di una coscienza liberata da ogni presupposto metafisico p. 35) e dall’altro gli riconosce il merito di aver saputo andare oltre un ingenuo idealismo dogmatico della realtà (p. 37). Secondo Zamboni, però, per superare l’incertezza kantiana in merito alla sintesi tra empirismo e razionalismo, è necessario soffermarsi su tre livelli dell’io: l’io che sa (pura funzione conoscitiva), l’io che ha (i propri stati sentimentali), l’io che agisce (negli atti di assenso e volontà) e l’io che è, al fine di ritrovare la necessaria zona intermedia (definita intuizione empirica indeterminata) in cui stati e atti sono veramente reali (p.47).

Sull’autonomia di chi ricerca e si pone sulla strada della conoscenza è incentrato il contributo di Laura Anna Macor intitolato L’Illuminismo di Lessing: non solo Selbstdenken. Lessing è riuscito, infatti, sul piano biografico a sottrarsi al gioco del mecenatismo, mentre sul piano teoretico (p.51) ad evitare che il motto dell’illuminsimo “sapere aude” divenisse sinonimo di solitudine, isolamento e di autarchia (p. 57). Pensare con la propria testa significa infatti riconoscere la propria insufficienza e dunque il necessario confronto con gli altri (p.61). La studiosa sottolinea come nelle controversie che hanno per contenzioso la verità non esistano per Lessing vincenti o perdenti, siamo tutti o meglio dovremmo essere tutti figli consapevoli di Póros e Penía (p. 63). Ricercare insieme la verità, però, non significa rinunciare alle proprie tesi se si è convinti della loro giustezza, in questo senso con-filosofare è con-tendere (p.65).

Proprio sul tema della ricerca del vero attraverso una prospettiva comunitaria sono incentrati i contributi di Giorgio Erle (Tra filosofia pratica e filosofia teoretica. Appunti per la fondazione razionale dell’etica, da Kant a Hegel, a Jonas e Apel) e di Giulia Battistoni (Per un’etica della comunicazione a partire da Kant: guadagni e criticità) che si concentrano sulla questione della fondazione razionale dell’etica. Punto di partenza è Kant che sembra saldare ragion pratica e ragione teoretica proprio in nome del concetto di libertà. Il filosofo di Königsberg lega il soggetto al piano dell’essere svincolandolo, però, dal dover essere. Non esiste, infatti, alcuna essenza dell’essere verso cui il soggetto dovrebbe essere ancorato, perché ciò implicherebbe assenza di libertà, che è la conditio della moralità (p. 74). Lo iato tra essere e dover essere, che Hegel recriminò a Kant, sembra ricucirsi con Jonas, che, sulla base di una comprensione ontologica del reale, reinterpreta il significato del concetto di “dovere”, declinato nella forma della responsabilità verso le generazioni future. Erle mostra lucidamente come, per Jonas, l’avanzare della filosofia sia, in effetti, un tornare al fondamento metafisico dell’essere per affrontare i problemi della contemporaneità (p. 78). Battistoni, invece, si concentra su Habermas e più analiticamente su Apel, per il quale l’idea di una fondazione razionale dell’etica può essere giustificata attraverso un apriori dell’argomentazione: le critiche che provengono dall’interno del pensiero filosofico rispetto all’idea di un’etica fondata sulla razionalità rappresentano pur sempre un’argomentazione di tipo razionale (p.96). L’impegno ad argomentare porta poi ciascuno a nutrire senso di responsabilità verso l’altro e a rientrare in uno spazio comunicativo su cui si fonda la giustificazione pragmatico-trascendentale dell’etica. L’etica del discorso, però, non può rimanere su un piano ideale, per cui Habermas giunge alla formulazione di un principio universale che rende possibile un accordo tra tutte le argomentazioni possibili (p.101).

Gli interessi epistemologici e storico-filosofici del Centro trovano riscontro nell’ampio a articolato saggio di Antonio Moretto (Scienza e filosofia in Descartes), che si è occupato dell’intreccio tra dimensione naturalistica e metafisica in Cartesio, prendendo in esame le opere più celebri (Discorso sul metodo, Meditazioni e Principi) e meno note (Diottrica e Mondo) del padre della filosofia moderna. Il percorso delineato dallo studioso parte dalla presa di distanza di Cartesio dalle “scienze dei libri” per leggere nel “gran libro del mondo” (p.107-108). Sin dalla gioventù Cartesio ha mostrato interesse per la matematica (scoperta meravigliosa) per il suo carattere di certezza e evidenza, al punto da parlare di una matematica universale che studiando le quantità e i rapporti quantitativi in generale può diventare lo strumento per descrivere l’intera realtà. Nel Discorso sul metodo (che precede come prefazione i tre saggi Diottrica, Meteore, Geometria di cui Moretto parla ampiamente) si fa, infatti, riferimento alla regola dell’analisi dalla cui applicazione si origina la geometria analitica (p .117-118). Grazie ad un sistema di coordinate, i cosiddetti “assi cartesiani”, la geometria analitica permette di esprimere attraverso equazioni algebriche elementi geometrici, con cui risolvere problemi irrisolti. La prima regola del metodo investe problemi di carattere metafisico, perché applicando il criterio dell’evidenza si giunge alla funzione euristica del dubbio, che conduce alla dimostrazione dell’esistenza di Dio. L’arbor sapientiae, proposto da Cartesio e illustrato dall’abate Picot (p.121-122), ha proprio come radice la metafisica e come tronco la fisica, da cui si dipartono i tre rami principali della meccanica, della medicina e della morale (il punto più alto della saggezza che presuppone la conoscenza di tutte le altre scienze).

Il volume si chiude con due saggi molto interessanti di Fabrizio Di Bella (Dalla storia all’essenza. Filosofia, tradizione ermetica e storia in Jacob Böhme) e Lorenzo Vitale (Potenza, felicità ed etica). Il primo si concentra su Jacob Böhme (su cui poi il Centro pubblicherà una monografia) che avrebbe, per certi versi, anticipato l’idealismo. Definito da Hegel “ciabattino grezzo e barbaro” Böhme scrive una sorta di romanzo storico che narra la storia di un Intero divenuto e diveniente, la cui vita è assicurata dai suoi termini opposti (p.148), e mette in guardia i suoi “benevoli lettori” sulla difficoltà di comprendere il mistero divino. Dio, infatti, rappresenta il senza fondo, l’abisso, il concetto limite inesplorabile (p.151), ma al contempo la sua vita interna alle cose è scandita da un ciclo di nascite e rinascite. Compito di ciascuno è attraversare questo ciclo con l’ausilio di un corpo disincarnato nella consapevolezza di essere inscritti in un cosmo signato dalla dialettica divina (p. 151), che non può essere compresa attraverso la Vernuft (la ragione che concettualizza e argomenta) ma solo dal Verstand (dall’Intelletto) mosso da intuizione e immaginazione (p.157)

Lorenzo Vitale, con una certa originalità, prende in esame i problemi inerenti al concetto di potenza, conoscenza, libertà di scelta. L’immagine della potentia dei absoluta diventa il paradigma di ogni azione etica. Poter conoscere significa poter agire, dunque l’onnipotenza e l’onniscienza rappresentano le condizioni per il perfezionamento etico dell’uomo (p.163). Contro una lunga tradizione di pensiero che vede nella potenza un segno di tracotanza e contro ogni moralismo che trae origine dal risentimento dovuto all’impotenza a realizzare un desiderio (p.168), Vitale afferma che proprio l’aumento di potenza rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente della moralità, perché non è possibile pensare di esprimere la propria potenza senza tener conto dell’altro e in generale della comunità (p.165).