ENRICO BERTI, "Aristotele nel Novecento"

Aristotele nel NovecentoEnrico Berti, Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2008

Recensione di Pasquale Vitale

Dalla lettura di Aristotele nel Novecento di Berti si evince subito che per comprendere l’espressione filosofia pratica in Aristotele non si può che fare riferimento alla sua concezione del sapere. Nel libro Epsilon della Metafisica lo Stagirita, del resto, distingue il sapere scientifico in scienze teoretiche, pratiche e poietiche, attribuendo a ciascuna di esse un proprio statuto gnoseologico ed epistemolo­gico. Tale classificazione è operata prendendo come riferimento due aspetti fondamentali di ciascuna scienza: l’oggetto e lo scopo. Il passaggio del testo di Berti che ci interessa analizzare riguarda le scienze pratiche  comprendenti l’etica e la politica, che perseguono la conoscenza come guida per l’azione. Nella classificazione medie­vale delle arti liberali l’etica non trova posto come disciplina autono­ma, in quanto, come afferma il Nostro, è assurdo in età cristiana parlare di filosofia pratica, dato che le norme del comportamento attingono da una fonte che non è filosofica ma teologica. Boezio ripren­de la distinzione aristotelica fra theoria e praxis, desumendola dai peripatetici tardo-antichi come Alessandro di Afrodisia, ma dopo di lui  l’articolazione aristotelica della conoscenza cade nell’oblio e solo nel Rinascimento sarà recuperata da un aristotelico del ca­libro di Pietro Pomponazzi. Quest’ultimo, nel De immortalitateanimae, asserisce che  l'ambiguità della natura umana consiste nel fatto che l’uomo non gode né dello status dell’immortalità, né è completamente assorbito nella vicenda temporale, ma medio fra le due nature, ha la possibilità di assumere quella che preferisce. Di fatto, l’anima intellettiva unita al corpo nell’operare dipende da questo ut obiecto, e dunque l’unico spiraglio di libertà per l’uomo consiste in quel profumo di immortalità che lo sostanzia come colui che agisce pensando. L'immaginario della filosofia prati­ca di Aristotele si consoliderà, con fasi alterne, con l’età moderna nell’organizzazione delle università tedesche, fino a che  Kant non porrà fine a questa tradizione sciogliendo la morale dal sistema del­le discipline come l’economia e la politica che le erano connaturali per renderla una scienza  autonoma. Emblematica a questo propo­sito è la considerazione di Franco Volpi che, in un libro ormai dive­nuto un classico, non manca di far notare come, per l’influenza di Kant e del kantismo, la filosofia pratica come oggetto di insegnamento ufficiale scomparve progressivamente dalle Università tedesche a cominciare proprio da Konigsberg, anche se, almeno formalmente, essa influenzò ancora gran parte della pubblicistica filosofica fino a, e addirittura dopo, Hegel. Con quest’ultimo, tuttavia, in partico­lare con l’assunzione a livello filosofico della separazione di socie­tà civile e stato  e con la definitiva emigrazione dell’etica nell’ambito dell’interiorità, la dissoluzione della filosofia pratica è da considerarsi ormai compiuta. Secondo Volpi, la conseguenza diretta della concezione della morale kantiana è stato l’avvento di saperi autonomi sciolti fra loro da ogni vincolo (quali l’economia politica, la sociologia e la psicologia) che hanno depauperato e ri­gettato la filosofia pratica, espropriandola del suo ruolo di guida e di orientamento della condotta umana. Non potendo esplicitare in tutta la loro portata e approfonditamente i nodi concettuali che nel corso dei secoli hanno portato alla riabilitazione della filoso­fia pratica di Aristotele espressi da Berti, ci limitiamo a delinearne per grandi linee l’interpretazio­ne heideggeriana, che ha senza dubbio riportato in auge l’attualità del pensiero etico e politico dello Stagirita e che ha avuto come di­retta conseguenza la fondazione di una corrente filosofica che, per comodità di studio, ha preso il nome di neoaristotelismo pratico. Enrico Berti nel suo celebre saggio Aristotele nel Novecento ci il­lustra nei dettagli come i maggiori esponenti del neoaristotelismo pratico – compresa la Arendt – abbiano preso le mosse proprio dall’Aristotele interpretato da Martin Heidegger. Quest’ultimo, nel rapporto inviato a Nartorp nel 1922 e pubblicato solo nel 1989 for­nisce una concezione dell’essere inteso come ciò che è prodotto. In  altri termini, l’essere sarebbe il mondo che si incontra nella pra­tica del produrre, del realizzare e dell’usare e conseguentemente la verità corrisponderebbe alla presenza intuita nel presente. Sulla base dell’essere come essere prodotto, Heidegger interpreta, poi, la metafisica come un onto-teologia, in tal modo quando la ricer­ca aristotelica si orienta sull’ente in quanto ente, essa è in realtà una ricerca dell’essere dell’ente, quindi è ontologia nel senso vero del termine, quando invece Aristotele definisce la filosofia come la ricerca delle cause prime dell’essere, individua queste cause in alcuni enti e così facendo occulta l’apertura da lui stesso com­piuta verso l’essere, poiché intende ricercare quell’ente che più di ogni altro è, ovvero l’essere sommo (teologia). In altri termini, Heidegger, sulla scia dell’interpretazione scolastica di Aristotele ripresa da Brentano, va molto oltre Aristotele, destando lo sconcer­to di Berti, il quale scrive che «questa interpretazione della verità, e quindi dell’essere, come semplice essere nel presente, come quella dell’essere come essere prodotto, non può non lasciare sconcertati. È vero, infatti, che Aristotele ammette delle verità temporali, ossia preposizioni che sono vere solo talvolta (potè alethèis), precisa­mente le verità di fatto, le quali sono vere solo nel momento in cui si verifica il fatto al quale si riferiscono,ma è altrettanto vero che l’essere chiamato da Aristotele più vero (alethèsteron), perché è causa della verità, cioè dell’intelligibilità delle altre cose, è quello delle realtà che sono sempre, cioè delle cause prime, le quali per il fatto che sono sempre, sono le più vere di tutte. In tal modo, la verità non viene affatto ridotta alla semplice presenza temporale, ma assume il carattere della vera e propria eternità. Il rifiuto della metafisica aristotelica come oblio dell’essere e l’elaborazione di una metafisica della finitezza ha poi portato Heidegger a privi­legiare la filosofia pratica di Aristotele così come essa è stata teo­rizzata nell’Etica Nicomachea. Il filosofo tedesco si attiene, infatti, alla tradizionale distinzione fra theoria, poiesis e praxis, ma – come fa notare Berti – diversamente da Aristotele, ritiene che l’atteggia­mento teoretico tragga la sua origine dalla disposizione poietica, nel senso che la scienza ha la sua origine nell’utilizzazione delle cose. Non era possibile collocarsi più agli antipodi dal pensiero aristotelico, per il quale la vita umana non è poiesis, ovvero un fare che ha un fine fuori di sé,ma praxis (che ha il fine in sé),che può riuscire bene solo se orientata dalla phronesis, ovvero dalla capaci­tà congiunta alla ragione di agire correttamente nei confronti degli altri, trovando il giusto mezzo. Ciò che in Heidegger sembra essere venuto meno,invece, è  la tipica  razionalità argomentativa che Aristotele ritiene indispensabile per la vita pratica e che consiste  nel giu­dizio sulla convenienza, sull’opportunità e sull’utilità delle cose umane. Nella filosofia heideggeriana, invece, fortemente incide la fenomenologia di Husserl nel ritenere il nous, ovverola capacità di cogliere immediatamente il vero anche per quanto concerne i beni umani, il vero mezzo del giudizio pratico.