ARMANDO MASSARENTI, "Istruzioni per rendersi felici. Come il pensiero antico salverà gli spiriti moderni"

Armando Massarenti, Istruzioni per rendersi felici. Come il pensiero antico salverà gli spiriti moderni, Piccola Biblioteca Guanda, 2014

Recensione di Roberto Messore e Pasquale Vitale

Il testo di Massarenti, sulla scia di Hadot, offre, ricorrendo a citazioni e ad alcune esemplificazioni, la sostanza degli insegnamenti stoico-epicurei in merito alla strada per raggiungere la felicità. Il concetto base di tale lezione consiste nel non lasciarsi trascinare da desiderata che, assoggettando l’uomo, lo rendono schiavo ora del lusso, ora della paura, ora dell’invidia, ora del danaro. A tale insegnamento, afferma Massarenti, mirava  Cicerone quando dava ampio respiro retorico alla figura di Dionigi tiranno di Siracusa, uomo assai potente e assai infelice, perché padrone di beni altrui ma mendico dei suoi. L’uomo che fa dipendere da sé tutti gli elementi che conducono alla felicità senza che essi, in balia del successo o dell’insuccesso di altri, siano costretti a dipendere dalle vicende altrui e a cadere in errore, è colui che si è procurato il metodo per vivere nel modo migliore. Questo è l’uomo moderato, forte, sapiente, colui che ubbidirà senza obiezioni all’antico precetto attribuito dalla tradizione allo spartano Chilone del ‘nulla di troppo’. Né la sua gioia, infatti, né il suo dolore saranno mai eccessivi, perché egli riporrà sempre ogni speranza in se stesso. La tensione a soddisfare i desideri è causa di inquietudine e in quem cadit aegritudo, in eundem metum cadere necesse est: chi è soggetto alla paura, lo è anche all’ansia, al timore, allo spavento, alla viltà, emozioni che non appartengono all’uomo magnanimo, e di conseguenza forte, destinato a non lasciarsi mai atterrire da nulla rimanendo invitto e, pertanto, felice.  La virtù è per Cicerone il presupposto fondamentale per essere beati in quanto fornisce all’uomo gli strumenti per conseguire la felicità. Cicerone nega che possa dirsi beatus chi usufruisce a lungo di un potere assoluto e quasi dispotico; egli si sforza di dimostrare l’assunto socratico accipere quam facere iniuriam. Viene così conferito ampio sviluppo retorico ai racconti su Dionigi di Siracusa, la cui tirannide durò per ben trentotto anni. Il ritratto che di questi offre Cicerone è quello di un uomo dotato di grande acutezza in rebus gerundis virum acrem et industrium, ma caratterizzato anche da una natura malvagia, eundem tamen maleficum natura et iniustum. Durante il suo governo dispotico s’era costruito una sorta di aureo carcere (in carcerem quodam modo ipse se incluserat), nel quale si barricava per fuggire dalle minacce di un popolo che di lui biasimava la iniustam dominatus cupiditatem. Trascorse la vita nella paura più fitta ed opprimente; non riponeva fiducia in  nessuno, al punto da costringere le proprie figlie a raderlo ut tonstriculae, per evitare di affidare il proprio collo ad un barbiere. Era in lui talmente forte il terrore della minaccia di morte da non tenere i suoi discorsi mai sulle tribune pubbliche bensì dall’alto di una torre. Tali condizioni avviluppano l’animo di chi non è più suo, ma pende da eventi autonomi che lo trascinano nel pelago della fortuna. La causa principale del disordine e del dolore dell’uomo, secondo gli Stoici, ha, dunque, la sua matrice nelle passioni; l’infelicità dell’uomo deriva, infatti, dal cercare di conseguire beni, di cui non può disporre, in quanto non dipendono dalla sua volontà. In altri termini, tutto ciò che segue la concatenazione delle cause e degli effetti non dipende da lui, e dunque deve essergli indifferente. Il dolore e la sofferenza sono causati dal fatto che l’uomo si lascia sedurre da una “visione umana della realtà”, per cui ogni valore è fatto dipendere dai sentimenti. Evitare di farsi sedurre dalle passioni significa, invece, assumere una “visione naturale delle cose”, affinché  si collochi ogni evento in una prospettiva universale. Tale cambiamento di concezione richiede, come Epitteto raccomanda, una serie  di esercizi spirituali miranti al dominio di sé, all’indifferenza verso le cose indifferenti, a rammentare ciò che è bene, all’attenzione verso il presente. Quest’ultimo compito richiede che il filosofo stoico sia sempre vigile e consapevole di ogni sua azione, sia sempre concentrato sul momento presente in modo da liberarsi dalle passioni cagionate dal passato o dal futuro. A onor del vero, però, tale visione rappresenta l’ideale di vita felice di un uomo inserito in una physis informata dal logos, non di certo quella dell’uomo contemporaneo consapevole della sua “gettatezza” e del fatto che l’esistenza non sia una mera sussistenza, una semplice presenza, qualcosa da tenere, come vorrebbero gli Stoici, sottomano. Esistere, infatti, deriva da ex e sto: è dunque uno stare fuori di sé, un poter essere, una possibilità che, in quanto tale, deve avere un progetto da interpretare. Nell’era del “crepuscolo degli dei”, della morte di ogni ragione sovrasensibile, di ogni “spirito assoluto”, il presente acquisisce un valore e una dimensione soltanto se proiettato nel futuro, in vista della realizzazione di un senso esprimibile solo in una sorta di autofinalismo. Far dipendere la  felicità dalla gestione di ciò che dipende da se stessi, allora, per l’uomo contemporaneo, non  può significare mettere tra parentesi, in una sorta di epoché fenomenologica, le dimensioni temporali del passato e del futuro; significa, invece, ricordarsi di ciò che si è stati, prendersi cura del proprio progetto, accettando il rischio che possa subire uno  scacco. L’attesa di realizzare i propri progetti di vita, infatti, crea un clima di forte piacere e distensione; lo stesso Leopardi, citato da Massarenti, nello Zibaldone affermava che «il piacere non è mai né passato né presente, ma sempre e solamente futuro» e le neuroscienze confermano che la dopamina si attiva ogni volta che conseguiamo un obiettivo. La consistenza che per gli Stoici assume il futuro, invece, consiste solo nel figurarsi in anticipo le difficoltà della vita: la povertà, la sofferenza, la morte,  che non sono dei mali, in quanto non dipendono dall’uomo. Si tratta di rappresentarsi delle argomentazioni persuasive atte ad arrestare momenti di collera o di tristezza, che  rappresentano solo dei meri fattori biologici, di cui è impossibile fare esperienza, e che per questo  motivo prospettano una previsione solo intellettuale e dunque formale. In realtà, bisognerebbe legare la prefigurazione dei mali futuri  a una concezione della morte intesa come necessità esistenziale. In questo senso, l’uomo farebbe propria la possibilità del nulla dal quale proviene e troverebbe la forza di sconfiggere la soggezione alle cose e di affermare la propria autenticità, quella che Heidegger definirebbe  “libertà appassionata e piena di angoscia”.

Essere felici per gli Stoici significa, in sintesi, superare i limiti della propria individualità per riconoscersi parte di un cosmo animato dalla ratio, che , però, il pensiero moderno esclude possa consistere nella pacificata consonanza delle anime belle. Essere felici significa, in altri termini, essere virtuosi e in armonia con la ragione che anima il mondo. A tal proposito, Armando Massarenti, nel suo recentissimo Istruzioni per essere felici, precisa, citando Haidt, che far coincidere la felicità con la virtù non vuol dire rivolgersi a un rigido puritanesimo che ha in odio il piacere, ma tutelare in un essere umano ciò che gli permette di sviluppare al meglio le sue potenzialità di uomo. Se infatti è vero che la virtù, per Aristotele e per Cicerone, che si rifanno all’eredità di Socrate, è conoscenza, è pur vero che essa non corrisponde alla pura razionalità, ma riguarda anche  i sentimenti e le emozioni che scaturiscono da un atto di cortesia ingiustificato. In questo senso, la vita felice è il frutto di un percorso tortuoso, in cui ognuno impara a conoscersi, coltivando le proprie virtù e sviluppando le proprie forze. Diverso, in parte, è l’atteggiamento degli Epicurei di fronte al dolore e alla guerra tra le passioni. Come per lo Stoicismo, l’Epicureismo, filtrato da Lucrezio, ritiene che la filosofia costituisca una terapia, ma la guarigione consiste nel liberare l’anima da affanni e preoccupazioni di chi si lascia sedurre da realtà che non è necessario desiderare e dai timori infondati. La fisica epicurea libera, così, dalla paura degli dei mostrando che essi non agiscono sul mondo e da quella della morte, che, intesa come pura disgregazione, non fa parte della vita. L’etica epicurea libera dai desideri insaziabili distinguendo tra desideri naturali e necessari, desideri naturali ma non necessari, e desideri né naturali, né artificiali.  Diversamente dagli Stoici, dunque, per guarire dalla seduzione del male generato dalle passioni, non bisogna tendere lo spirito in una sorta di veglia morale costante, non bisogna vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, ma praticare la distensione, dovuta al piacere intellettuale della contemplazione della natura, dell’amore e dell’amicizia. Invece di rappresentarsi i mali in anticipo, bisogna impedire alla mente di crogiolarsi nel dolore e abbracciare fino in fondo la vita con tutto ciò che essa comporta, in una sorta di stupore estatico per tutto ciò che si dà e non si può cambiare. L’etica epicurea, forse molto più di quella stoica, potrebbe fornire all’uomo contemporaneo un valido aiuto per orientarsi nel turbinio delle passioni che, incontrollate, potrebbero destabilizzarlo e renderlo infelice. Se Dio è morto, se il nostro mondo è, come detta la fisica epicurea, il prodotto della casuale collisione di diversi atomi e non è stato creato o pensato per uno scopo preciso, allora l’unico peccato possibile, come afferma Nietzsche, è quello contro la vita, per cui all’uomo non resta che  accettare il proprio destino e amarlo con la leggerezza di chi ama la vita e le sue manifestazioni e con  la serietà di chi prima di progettare rivolge lo sguardo al passato e si libera del superfluo, dal dolore del corpo (aponìa) e dell’anima (atarassìa).