JEAN WIRTH, "Qu'est-ce qu'une image?"

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Jean Wirth, Qu’est-ce qu’une image?, Genève, Droz, 2013

Recensione di Salvatore Grandone

Il saggio di Jean Wirth presenta una trattazione semantica dell’immagine. L’autore prende le distanze dagli approcci fenomenologici, psicologici o artistici, preferendo l’individuazione del proprio dell’immagine attraverso il serrato confronto con la struttura del segno linguistico. Nelle prime pagine del lavoro si fornisce una definizione provvisoria dell’immagine alla luce del concetto di somiglianza. Il senso comune avrebbe ragione per Wirth nell’affermare che l’immagine è tale solo se somiglia all’oggetto che rappresenta. Tuttavia se la somiglianza è letta in termini “visivi” si corre il rischio di limitare eccessivamente l’ambito dell’immagine. Non si potrebbero infatti definire immagini tutte quelle imitazioni delle cose che coinvolgono altri sensi – ad esempio un CD che offre un’immagine uditiva di un concerto o un ingrediente culinario che sostituisce un altro di gusto simile (p. 24) . Pertanto se «non vi è alcuna ragione di limitare arbitrariamente l’immagine ai fenomeni visivi» (p. 24), è più corretto intendere la somiglianza come la selezione nell’immagine di quei caratteri pertinenti che definiscono un oggetto.  In questo modo l’autore risponde agevolmente alle critiche mosse da alcuni studiosi, come Umberto Eco, alla definizione di immagine come «segno che possiede una relazione di equiformità a ciò che rappresenta» (p. 27), perché la somiglianza non coincide con la mera sovrapponibilità copia-oggetto. È ovvio, ad esempio, che il naso rappresentato in un ritratto non “somiglia” in senso stretto al naso reale. Non vi sono certo due fori nell’immagine-naso, né la rappresentazione è tridimensionale. Tuttavia si può parlare di somiglianza come equiformità tra proprietà pertinenti, in quanto il naso del ritratto presenta delle proporzioni, sfumature di colore etc. che sono isomorfe al naso reale. Dopo questa prima definizione, Wirth individua un importante elemento strutturale dell’immagine che la differenzia dal segno linguistico. Mentre il segno è arbitrario, l’immagine è vincolata dalla sua equiformità al referente e pertanto presenta una rigidità sintattico-semantica. «Contrariamente al segno arbitrario che è imposto al referente, l’immagine è determinata nella sua forma da quella del referente. La possibilità di sostituire dei termini differenti gli uni dagli altri è infatti la conseguenza di un atto di imposizione che rende il segno arbitrario, ciò che l’imitazione, costitutiva dell’immagine, esclude» (p. 36). Non si deve però pensare che un’immagine non può essere convenzionale. Ogni immagine è in certa misura convenzionale, «ma questa convenzione è esteriore all’imitazione; costituisce il limite al cui interno la forma dell’immagine è interamente determinata da quella del referente» (ibid.). In altri termini, malgrado le immagini di un oggetto siano molteplici, restano pur sempre determinate dai tratti pertinenti che identificano il referente. Più difficile da delimitare è la differenza tra immagine, indizio e impronta. Wirth fornisce un’interessante distinzione attraverso l’apriorità o aposteriorità della pertinenza. Mentre nell’indizio e nell’impronta la pertinenza nei confronti del referente è decisa a posteriori, nell’immagine è definita «a priori, poiché l’equiformità con il modello riposa sulla selezione dei tratti pertinenti» (p. 49). Inoltre se l’immagine e l’impronta hanno un’organizzazione significante interna, l’indizio mostra un’organizzazione significante esterna simile al segno. Dopo queste importanti precisazioni l’autore esamina diverse tipologie di immagini. In particolare si sofferma sulle immagini ibride, in cui sono presenti elementi non iconici (parole, lettere etc.), le immagini allegoriche e quelle che rappresentano oggetti fittizi senza referenti mondani. Si tratta di situazioni problematiche che apparentemente invalidano il carattere mimetico dell’immagine. Wirth riesce però a dimostrare abilmente, avvalendosi degli strumenti concettuali della linguistica e di una serie di esempi tratti dai propri studi sulla civilità medievale – l’autore del saggio è infatti un rinomato medievista –, che i casi indicati non mettono in discussione il principio di equiformità. Rispetto alle immagini che presentano citazioni di testi, l’autore osserva che non sono testi, ma immagini di testi e, in quanto tali, affette a loro volta da rigidità sintattico-semantica. In merito ai contenuti delle immagini di testi – ovvero il referente testo – è chiaro che si è di fronte «a una categoria semantica differente da quella dell’immagine» (p. 64). Le immagini allegoriche mantengono anch'esse l’equiformità, benché sia «tra un oggetto e un altro diverso da quello denotato. Più precisamente somigliano all’oggetto rappresentato, ma questo oggetto è preso come figura di un altro oggetto che l’immagine denota in senso figurato» (p. 101). Si ha pertanto una situazione «paragonabile al funzionamento della retorica del linguaggio: pone né più né meno gli stessi problemi e richiede le stesse soluzioni» (p. 101). La nozione di somiglianza è ancora applicabile alle immagini di oggetti fittizi. Infatti «in uno spazio modale determinato, per esempio quello della mitologia, non solo l’oggetto reputato fittizio in un altro spazio modale (…) possiede l’esistenza, ma è anche suscettibile di una descrizione» (p. 80). Wirth non pretende ovviamente di aver così esaurito tutti i possibili casi di ibridazioni tra il codice iconico e quello linguistico, né del resto ignora che la sua “teoria” dell’immagine non si confronta con la “storia” dell’immagine, ovvero con l’evoluzione di questo lessema nel pensiero occidentale (pp. 101-104). D’altra parte l’approccio meta-storico e semantico al problema dell’immagine non è un punto debole del lavoro di Wirth. Costituisce piuttosto l’apporto più profondo e originale della sua riflessione, perché chiarisce le dinamiche di un codice espressivo spesso abusato e frainteso dalle pseudo-categorie dei media, dal senso comune e da quelle ricerche accademiche di settore che generalizzano i propri risultati dimenticando la limitatezza del proprio campo di indagine.

 N.B. Le traduzioni dal francese all'italiano sono a mia cura.