JUHANI PALLASMAA, "L'immagine incarnata"

Juhani Pallasmaa, L’immagine incarnata. Immaginazione e immaginario nell’architettura, Pordenone, Safarà Editore, 2014 (tr.it. a cura di Matteo Zambelli, ed.or. The Embodied Image: Imagination and Imagery in Architecture, 2011).

Recensione di

Salvatore Grandone

Il lavoro di Juhani Pallasmaa si presenta come un percorso all’interno del doppio volto dell’immagine, colta da una parte come eccesso di un visibile che impoverisce l’essere-al-mondo dell’uomo, dall’altra come incarnazione di un invisibile che consente all’individuo di abitare e ricostruire in modo creativo i propri spazi vitali. L’autore traccia le variazioni dell’“uso” iconico, delineando due percorsi etico-estetici in cui l’immagine si manifesta come luogo di perdizione o di redenzione che mette in gioco il senso ultimo dell’esistenza.

Nella società contemporanea il dominio dell’immagine – intesa «come la superficie, senza spessore e alla moda, di comunicazioni visive e rappresentazioni artistiche» (p. 10) – determina un pericoloso declino dell’immaginazione. La sovrabbondanza di immagini tende infatti a impoverire la fantasia che si impigrisce e si chiude in uno spazio immaginario privo di spessore, dove l’iconico è “consumato” prima di essere compreso, visto prima di essere atteso e anticipato emotivamente dal corpo.

Per uscire dal cul-de-sac della declinazione post-moderna dell’immagine, l’architettura può assumere una funzione chiave. Certo «le attuali ed enfatiche tecniche di produzione delle immagini e l’arte figurativa architettonica focalizzata sull’immediato sembrano spesso creare un mondo di finzioni architettoniche a sé stanti che dimenticano completamente il fondamentale sostrato esistenziale e gli obiettivi essenziali dell’arte di costruire» (p. 23). Tuttavia l’architettura ha fatto sempre «da tramite fra la dimensione cosmica e quella umana, fra eternità e presente, fra divinità ed essere mortali» (ivi.). Si tratta pertanto di un’arte che si oppone naturalmente al consumismo dell’immagine in nome di un regime iconico “incarnato”.

Per immagine “incarnata” Pallasmaa intende un’immagine che sia in grado di coinvolgere la dimensione affettiva (preconscia, inconscia, archetipica), cinestetica e fantastica dell’uomo. L’immagine da riscoprire, in vista di un soggiornare più autentico nel mondo, si configura come un centro di azione, di possibilità, di un posse che si nutre del pathos, in cui agire e patire si coappartengono.

Un esempio chiarificatore è la casa: «il nostro desiderio profondo è di vivere in un mondo che ha un significato esistenziale. (…) Un muro che oggi ci commuove riecheggia la prima separazione del mondo esterno da quello interno; un tetto che ci emoziona ci rende consapevoli del clima e del tempo all’aperto offrendoci una piacevole protezione dagli elementi naturali (…) La casa ci consente di sognare in sicurezza» (p. 162). L’architettura, nella sua accezione più alta, media quindi «tra la conoscenza preconscia comportamentale e quella mitica» (ivi.).

Riprendendo e sintetizzando in modo originale alcune tesi di Bachelard e Jung, l’autore spiega come l’incarnazione dell’immagine nel corpo entri in risonanza con la dimensione archetipica dell’inconscio (Jung), rivelando ad un tempo l’ancoraggio materico dell’immaginazione ai quattro elementi (Bachelard).

 Affinché le immagini attecchiscano e nutrano l’abitare dell’uomo è in conclusione necessario che l’artista e l’architetto rimangano «in contatto con le origini primordiali e inconsce dell’immaginario poetico per poter creare delle immagini che possano diventare parte della nostra vita, immagini che siano capaci di toccarci con la delicatezza e la freschezza della novità autentica» (p. 175).

Si tratta di un invito-monito ben articolato sul piano teorico che non mira al nostalgico ritorno al “passato” – a una sorta di architettura “antiquaria” (nel senso nietzschiano del termine) –, ma a riscoprire l’orizzonte vitale, biologico e inconscio di ogni creazione artistica. Solo restando fedeli a tale radice l’architettura e l’arte possono reagire efficacemente alla mercificazione dell’immagine e alla deriva tecnocratica che le riduce al mero virtuosismo.