ELISABETTA DALL'Ò. Il senso della morte. La valle d'Aosta tra santi e riti funebri

Elisabetta Dall'Ò, Il senso della morte. La valle d’Aosta tra santi e riti funebri, Roma, Aracne, 2014

Recensione di Nicoletta Capotosti

 

Ma alla morte, compagna di strada delle generazioni precedenti, non pensavamo mai. Non era all'ordine del giorno.

 Mordecai Richler, La versione di Barney

 

Il modo in cui il singolo soggetto si rapporta alla morte segna - secondo la prospettiva filosofica esistenzialista - il discrimine tra un'esistenza autentica e un'esistenza inautentica. Solo nella prima forma l'esser-ci assume la morte come possibilità radicale, introiettando il paradosso umano della libertà. La morte diviene quindi la possibilità estrema, presente virtualmente in ogni momento della vita. Collocata ai confini del campo visivo, la presenza della morte esercita sul soggetto una continua spinta alla progettualità, proiettandolo oltre la dimensione deietta della quotidianità. Al pari delle altre possibilità essa genera l'angoscia - sentimento della temporalità - ma, diversamente dalle altre, essa rappresenta, per l'esser-ci, il punto estremo, insondabile e irrappresentabile; quel punto in cui molto difficilmente l'angoscia resiste a tramutarsi in paura.

Ecco il punto in cui la "perdita di presenza" si concretizza in un rischio reale e tangibile. In questo passaggio la prospettiva individuale si raccorda a quella collettiva; il ruolo della comunità è di accompagnare il singolo nell'esorcizzazione del fenomeno che più di ogni altro esprime il paradosso della condizione umana. La perdita di senso che il vissuto della morte porta con sé, nella maggior parte dei casi, coglie le persone impreparate dal punto di vista esistenziale. Per continuare ad esprimerci con termini heideggeriani - penso all'illuminante lettura che dell'esistenzialismo fece Ernesto De Martino ne "Il mondo magico" - la comunità accompagna il soggetto nella condivisione di pratiche rituali e attraverso rappresentazioni collettive utili ad favorire una reazione autentica di fronte all'incommensurabile. E' innegabile che tale ruolo della collettività sia molto maggiore nelle società di tipo tradizionale e infinitamente meno efficace in quelle individualiste di matrice occidentale. Ciò nondimeno - com'è noto - funerali e sepolture, analogamente a tutti i rituali in cui l'uomo si pone in contatto con l'ultraterreno (mi riferisco alla religione in generale), si collocano tra gli eventi che già la nascente etnologia aveva definito, con Vico, invarianti antropologici.

 

Il libro di Elisabetta Dall'ò propone una ricerca antropologica sulla storia culturale della morte in Valle d'Aosta, indagata e ricostruita attraverso l'analisi di documenti e fonti storiche d'archivio. L'attrattiva di questo testo - opportunamente scelto dalla casa editrice Aracne per inaugurare una nuova collana di antropologia religiosa (il cui comitato scientifico si compone di autorevoli membri operanti nel campo della ricerca etnologica) - risiede in almeno tre elementi.

Il primo pertiene all'aspetto metodologico: l'autrice offre un esempio di pratica molto accurata nella ricerca documentalìstica; questo si rivela utile sia a chi rifletta internamente al dibattito tra fautori della ricerca sul campo e sostenitori del metodo archivistico - diatriba molto accesa in ambito accademico - sia a coloro che abbiano intrapreso la strada di un'antropologia d'archivio o museale e del patrimonio. Tale questione di ordine epistemologico è centrale negli interrogativi sull'identità della ricerca antropologica in epoca postmoderna.

Il secondo elemento mette in campo uno sguardo diacronico che indaga i mutamenti, nella storia, del modo in cui i valdostani hanno concepito la morte. Su questo piano l'autrice usa alcuni noti  modelli analitici affermatisi nel dominio dell'antropologia sociale, alcuni dei quali direttamente legati al contesto indagato, come nei casi di Hertz (che aveva condotto un accurato studio su Cogne) o Van Gennep (richiamato dall'autrice per la formulazione di un questionario sui rituali di morte praticati in Savoia e Alta Savoia). Altrove, la Dall'ò proietta le categorie appartenenti a disparati orizzonti teorici nel suo contesto di indagine. Questo conferisce alla trattazione un buon respiro teorico.

Il terzo richiamo concerne la scelta stessa del terreno: chiunque abbia avuto occasione di osservare il contesto culturale valdostano ha rilevato di certo una forte tendenza alla conservazione della tradizione, una vera e propria affezione degli abitanti ad evocare rituali e pratiche di culto atavici. Questo fattore è di grande interesse soprattutto perché in Italia è consuetudine associare l'attrattiva folklorica tipicamente alle regioni meridionali (osservazione commentata con grande maestria da Luigi Lombardo-Satriani alla presentazione del libro, avvenuta all'Università di Roma la Sapienza il 4 dicembre 2014). 

 

Lo stile dell'autrice è prevalentemente descrittivo come ci si deve attendere da un lavoro archivistico, il quale, contrariamente alla più classica ricerca sul campo, solo raramente ricorre alla narrazione o al commento personale dell'autore. Nonostante questo emerge una notevole capacità di rappresentare il contesto sociale complessivo in cui, nelle diverse epoche e con incredibili differenze tra un villaggio e l'altro, la concezione della morte si è tradotta in comportamenti culturali sensibilmente eterogenei ma ovunque capaci di produrre coesione sociale o comunque senso d'appartenenza a un'identità sociale.

Secondo Bernard "la morte è un fatto sociale per eccellenza" e cercare di fare una panoramica etnografica dei riti e delle credenze funebri sarebbe "un'impresa vana" (dizionario di etnologia, voce morte); Elisabetta Dall'ò è riuscita bene - limitatamente alla regione indagata - in questa impresa, obiettivamente irrealizzabile al livello macroscopico.

Attraverso una struttura in capitoli il cui criterio di individuazione è affidato a specifici temi, la trattazione si snoda in modo lineare. Tutto il primo capitolo è dedicato alla ricostruzione storica della morte nella cultura medica. Il concetto stesso di morte risponde in biologia a paradigmi che mutano nel tempo: la nozione di morte cerebrale sostituisce nel XX secolo una definizione di morte come cessazione del battito cardiaco e della respirazione. Ancora negli anni Ottanta del XX secolo si poteva essere dichiarati morti in alcuni stati (U.S.A.)  e vivi in altri.

Si apre poi una rosa di capitoli sulle rappresentazioni popolari; ci spostiamo dal terreno dell'antropologia medica a quello dell'antropologia religiosa: il ruolo delle reliquie dei santi, le metafore e le leggende sulla morte, la morte infantile e il ritorno alla vita. Lo schema dei capitoli ci presenta una prima parte in cui viene definita la categoria in questione e la seconda parte in cui quella categoria viene applicata al caso valdostano. Luoghi, monumenti e usanze note a chi, come me, abbia vissuto da forestiero in quella bella regione, vengono presentati sotto una luce che ne svela significati prima ignoti al lettore.

Il capitolo sul contributo di Hertz costituisce un intermezzo teorico importante in cui l'autrice, richiamando la ricerca realizzata dal noto antropologo su Cogne, ne analizza il modello, servendosi al tempo stesso dei risultati con esso raggiunti allo scopo di ampliare il già vasto ventaglio di aspetti sulla concezione valdostana della morte.

Chiudono questa densa ricerca tre capitoli dedicati rispettivamente: al confronto tra i rituali stabiliti dal Concilio di Trento e quelli di matrice gallicana e ambrosiana che la Valle d'Aosta ha potuto mantenere -  in continuità con la sua tradizione -  fino al 1828 (grazie ad una deroga al principio tridentino di omogeneizzazione, applicato agli altri territori italiani), al ruolo della Confraternita della Santa Croce e all'analisi dei testamenti.