JUHANI PALLASMAA, La mano che pensa

 

 

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 Juhani Pallasmaa, La mano che pensa. Saggezza esistenziale e incarnata nell’Architettura [The Thinking Hand: Existential and Embodied Wisdom in Architecture, 2009], tr. it. M. Zambelli, Pordenone, Safarà Editore, 2014.

Recensione di Salvatore Grandone

Il saggio di Pallasmaa ripensa il ruolo della mano nell’arte e nell’architettura. La mano non è per l’autore un semplice organo o strumento, ma il luogo privilegiato in cui il pensiero si incarna. Essa configura la relazione incerta, vaga e allo stesso tempo creativa tra sé e il mondo; articola un linguaggio di segni autonomo che precede e rende possibile il linguaggio; genera la feconda interazione tra i sensi. “La mano che pensa” è infatti per l’autore un occhio che tocca il reale e lo interroga, ponendo delle domande concrete da cui emerge un rapporto con l’ambiente percettivo, emotivo e cognitivo. L’autore argomenta tali tesi attraverso un fitto e denso dialogo con la filosofia (in particolare Merleau-Ponty), le neuroscienze, la letteratura e le opere d’arte architettoniche e figurative. Emerge in questo modo una visione sinergica e interdisciplinare dell’atto creativo che supera il dualismo mente-corpo e soprattutto la falsa opinione comune che l’arte non pensi e non possa contribuire alla conoscenza oggettiva del nostro modo di essere al mondo. Tra arte e riflessione non vi è dunque uno scarto incolmabile, perché «la stato creativo è una condizione di immersione aptica, dove la mano esplora, ricerca e tocca in maniera semindipendente» (p. 68). Soprattutto nell’architettura e nelle arti figurative si manifesta l’originaria fusione occhio-mano-mente: «l’intenzione, la percezione e il lavoro della mano non esistono separatamente» (p. 81) e pertanto il lavoro della mano e quello del pensiero sono due facce della stessa medaglia.

La differenza tra il pensiero astratto e l’esperienza artistica non va allora collocata sulla presunta assenza del momento concettuale nell’arte. Lo scarto si fonda al contrario su un “più” essenziale proprio dell'arte: «un pensiero artistico non è solamente una deduzione logica o concettuale, esso comporta anche una comprensione esistenziale e una sintesi di esperienza vissuta, che fonde percezione, memoria e desiderio. La percezione fonde la memoria con il percetto reale e, di conseguenza, anche le percezioni sensibili comuni sono processi complessi di confronto e valutazione» (p. 118).  

L’arte non è così ridotta dall’autore all’ambito del soggettivo e del relativo. Infatti «l’arte declina la nostra esperienza esistenziale essenziale» e «rappresenta anche particolari modalità di pensiero, cioè le reazioni al mondo e i modi in cui viene elaborata l’informazione, che si dà immediatamente come un’attività incarnata e sensibile, ossia senza essere trasformata in concetti, o senza neppure essere entrata nella sfera della coscienza» (p. 122). Attraverso l’arte è trasmessa una profonda saggezza della vita, un modo più autentico di esistere. In tal senso l’architettura assume un valore fondamentale, in quanto si tratta di quell’arte che più rende visibile l’incarnazione del pensiero nello spazio, ovvero il modo in cui il corpo-mente vive e abita il mondo. L’autore sottolinea però nel suo lavoro che l’introduzione del CAD e, più in generale degli strumenti informatici, nella fasi di progettazione e realizzazione di un’opera architettonica ha pericolosamente allontanato questa forma d’arte dalla sua vera vocazione. Molto spesso l’architetto di oggi non vive a contatto con i propri operai e con il materiale delle sue future costruzioni. Sembra più un avvocato che un artista, perché «lavora a distanza, dallo studio, attraverso disegni e specifiche verbali» (p. 63). Senza degenerare in una posizione neoluddista, Pallasmaa si oppone al tecnicismo informatico in architettura e preferisce invece seguire l’approccio degli architetti artigiani come Wirkkala e Renzo Piano. Infatti «un architetto saggio oggi va alla ricerca di un profondo sodalizio personale con artigiani e artisti, per ricollegare il mondo e il pensiero intellettualizzato con la sorgente di tutta la vera conoscenza: il mondo della materialità e della gravità e la comprensione sensibile e incarnata di questi fenomeni fisici» (p. 65). Dall’orizzonte teorico-epistemologico tracciato dall’autore emerge allora come compito dell’architettura il «mantenere la differenza e l’articolazione gerarchica e qualitativa dello spazio esistenziale. Invece di prendere parte al processo di ulteriore accelerazione dell’esperienza del mondo, l’architettura deve piuttosto rallentarla, fermare il tempo e difendere la naturale lentezza e diversità dell’esperienza. L’architettura deve difenderci contro l’eccessiva esposizione, l’eccessivo rumore e l’eccessiva comunicazione. Infine, compito dell’architettura è preservare e progettare il silenzio» (p. 152).