MARIA GIUSEPPINA DI MONTE et alii (cur.), L'immagine che siamo

L’immagine che siamo

L’immagine che siamo. Ritratto e soggettività nell’estetica contemporanea, Roma, Carocci, 2014

Recensione di Salvatore Grandone

Il testo raccoglie nove interventi che offrono un’analisi ad un tempo fenomenologica e storiografica del ritratto. Da una parte si cerca infatti di individuare il proprio del ritratto, la sua specificità iconica, dall’altra si descrivono le principali evoluzioni subite dalla ritrattistica.  Sul primo versante si collocano soprattutto gli illuminanti contributi di Gottfried Boehm (Lo sguardo vivente. Volto, ritratto, identità), Michele di Monte (Avere la faccia. Il ritratto in persona) e Tonino Griffero (L’atmosfera del ritratto e lo sguardo intercorporeo), sul secondo i testi di Eugenio La Rocca (Immagine tipizzata e ritratto individuale: gli inizi di un percorso), Michael Squire (La ritrattistica romana e la semantica dell’asportazione), Henri de Riedmatten (Francis Bacon. Autoritratti dé-facés), Maria Giuseppina Di Monte (Le persone e le cose. La tentazione della contemporaneità da Giacometti a Bacon) e Tiziana Migliore (Ritratti e Portratti. Giulio Paolini e l’identikit dell’artista). A chiusura del volume vi è anche un saggio che affronta il problema dell’espressività del volto dal punto di vista psicopatologico (Lisa Schäfer et alii, Talking about the Face. Narrative Identity of Patient with Facial Surgery).

Ogni immagine evoca l’oggetto come una presenza assente (Sartre), ma nel ritratto la presentificazione risulta particolarmente ambigua. Si vuole rappresentare infatti una persona non sempre identificabile e collocata spesso in un’attitudine che dovrebbe eternizzare alcuni elementi del suo carattere ritenuti fondamentali dal soggetto ritratto o dall’artista. Si crea pertanto un sottile «equilibrio tra “trattenere” e “concedere”, tra inclusione ed esclusione» (Boehm, p. 25). Lo stato affettivo singolare che legherebbe colui che posa a un determinato momento del tempo non può essere rappresentato. Occorre piuttosto fingere, mimare un ruolo, un atteggiamento che possa consegnare ai posteri un’immagine di sé atemporale. La prevalenza di questa esigenza può giungere, come nelle effigi degli imperatori o dei sovrani sulle monete, ad una rappresentazione di profilo in cui lo sguardo  – la parte del volto che mostra la profonda unicità della persona – non è ritratto. Entra dunque in gioco un complesso gioco mimetico che non mira a “copiare” il soggetto, quanto a rifarlo, contraffarlo (Michele  Di Monte, p. 30). «Che cosa viene, in effetti, contraffatto? E che cosa è possibile eventualmente contraffare?»  (Ibid.). Michele Di Monte mostra come il soggetto ritratto sia inserito all’interno di una finzione. Si tratta di giocare una parte, di entrare in un “come se” che l’artista raffigura. In altri termini nel ritratto non si rappresenta semplicemente una persona, ma, per dirla con Winnicott, un oggetto transizionale, ossia un individuo che si immedesima in un ruolo (come un attore) rilevante nella comunità. L’identità della persona ritratta non è allora “meramente” fisiognomica. Al di là delle apparenze si vuole rappresentare un universo valoriale che colloca l’individuo in un contesto intersoggettivo, dove la comunicazione è essenziale.

La corporeità del volto è difficilmente attingibile, perché l’atto mimetico, lungi dal limitarsi a copiare le sembianze del rappresentato, traduce una realtà già tra-dotta sul piano simbolico. Del resto all’identità corporea dell’uomo si sovrappone e si intreccia in modo inscindibile quella culturale e ne consegue che la separazione tra i due aspetti (quello corporeo e quello culturale) è a quasi impossibile. Per tentare di accedere alla corporeità del volto occorre paradossalmente disfarlo, sfigurarlo come fa Bacon nei suoi quadri. «Il ritratto, che da sempre aspirava a mettere in luce l’anima, diventa per Bacon il mezzo per visualizzare il processo opposto. Rivelando la sua brutalità di oggetto fra gli oggetti, il volto umano in Bacon reclama lo statuto di cosa e non già quello di persona» (Maria Giuseppina Di Monte, p. 112). Anche la “materialità” dell’atto di ritrarre può essere raffigurata a condizione di far sparire il volto. Nelle opere di Giulio Paolini si «oggettiva il fare artistico» (Tiziana Migliore, p. 119) e la dialettica tra il re-traho (“memoria ripeto”) e il pro-traho ( «disegno qualcosa al posto di qualcos’altro») (Tiziana Migliore, p. 122). Nell’arte contemporanea la riflessione sul ritratto si acutizza quindi sul piano corporeo e su quello riflessivo, mettendo in luce il dinamismo noematico e noetico di un oggetto iconico che attraversa il tempo all’insegna di un farsi nel disfarsi. Il ritratto assurge in conclusione in questo interessante volume a strumento metacognitivo che aiuta l’uomo a ri-flettere sé e su di sé, ad interrogare il suo posto nel mondo.