ELISABETTA VILLARI, Aby Warburg, antropologo dell'immagine

Aby Warburg, antropologo dell’immagine

Elisabetta Villari (cur.), Aby Warburg, antropologo dell’immagine, Roma, Carocci, 2014.

Recensione a cura di Salvatore Grandone

Il testo raccoglie cinque contributi su Aby Warburg, storico dell’arte e antropologo che sviluppa nella sua importante produzione scientifica una ricerca interdisciplinare sul mondo delle immagini. Superando i rigidi confini dei saperi accademici, Warburg cerca di cogliere i molteplici elementi dell’universo iconico. Si sofferma sulla genesi biologico-espressiva delle immagini (Andrea Pinotti, Iconologia dell’esitazione in Aby Warburg) e sulle peripezie che le conducono a ripresentarsi in luoghi e tempi diversi come differenti ripetizioni del medesimo. In merito al primo aspetto è importante ricordare come Warburg integri all’interno delle proprie riflessioni le indagini di Darwin sull’espressione. L’immagine è intimamente legata all’espressività umana, all’innata attitudine dell’uomo ad interrompere la catena di azioni-reazioni immediate proprie dei fenomeni naturali, introducendo uno scarto in cui possono emergere gesti, posture e, più in generale, manifestazioni psico-somatiche che indicano o mimano l’azione senza compierla. «Così, ad esempio, il gesto umano dell’aggrottare le ciglia è il simbolico esito evolutivo dell’originaria funzione protettiva consistente nel socchiudere gli occhi durante un combattimento» (p. 30). Le espressioni del corpo umano sono pertanto le tracce di esperienze arcaiche che mostrano una gestualità ancora vincolata all’azione. La distanza dall’azione è anche rafforzata dalla ripetizione che fissa e stabilizza il tratto fisiognomico trasformandolo in immagine reinterpretabile esteticamente.

Le immagini hanno per Warburg la loro fonte primaria nel corpo umano e non deve quindi sorprendere se anche in culture molto distanti sono individuabili topoi iconici simili. Questo è il secondo aspetto – la ricorsività, nella differenza dei contesti culturali, di medesime immagini – che è messo acutamente in luce nella raccolta. Benedetta Cestelli Guidi (L’antico in bianco e nero: il progetto di allestimento della Gipsoteca di Amburgo) sottolinea come la tendenza di Warburg a mettere in primo piano l’immagine e non la comprensione aprioristica delle presunte categorie estetiche di una certa cultura abbia costituito il filo conduttore seguito nell’allestimento della Gipsoteca di Amburgo. Analizzando la disposizione dei gessi dell’antichità si osserva infatti che «Warburg orienta l’esposizione su una visione emotivamente tesa, patetica, piena di impulsi vibranti» (ivi, p. 58) e pertanto l’antichità non è più vista a partire dal «culto della nudità che era stato determinante nella scelta dei lavori assurti a canone durante il Settecento» (Ibid.).

Il Pathosformeln – la comprensione dell’elemento patico insito nell’immagine – costituisce il leitmotiv del percorso warburghiano sia sul piano teorico sia su quello operativo. Tale approccio presenta una forte valenza epistemologica che conserva intatta la sua attualità. Il saggio di Gioacchino Chiarini (Orfeo con lo specchio: ermetismo e alchimia del secondo Quattrocento) prende infatti spunto in modo originale dal metodo di Warburg per descrivere la traiettoria dell’immagine di “Orfeo con lo specchio” nella Siena del secondo Quattrocento. Nei diversi affreschi il tema classico si carica di risonanze ermetiche e neoplatoniche, assumendo un significato bipolare. «Immerso nel mondo della materia (…) l’uomo non può accontentarsi di tenere sotto controllo e di dominare la natura in ogni suo aspetto (…), ma deve cercare di risalire a Dio guardando più a fondo in se stesso, ciò che è reso dall’immagine dello specchio: essendo fatto a immagine di Dio, attraverso la propria immagine egli può iniziare la strada che risale a quella di Dio, a Dio stesso» (ivi, p. 77). L’Orfeo rinascimentale non si limita a dominare la natura e gli animali (come quello classico), vuole anche ascendere a Dio attraverso un guardarsi che è ad un tempo riflessione e auto-riflessione.

Il dialogo con Warburg è arricchito inoltre dal confronto con le posizioni di Henri Focillon (Annamaria Ducci, Altri atlanti di immagini: Henri Foccilon e la vitalità delle forme). Malgrado i due diversi campi di interesse (l’arte medievale per Focillon, quella soprattutto rinascimentale per Warburg), sono molte le affinità tra i due studiosi. Entrambi ricorrono a metafore geologiche per descrivere la propria rappresentazione della storia culturale. Inoltre per Focillon «le immagini non sono puri sintomi di un periodo, ma funzionano da attivatori della coscienza storica; l’opera d’arte non è soltanto fattore di un processo culturale, ma essa stessa incide sulla storia in forme e modi che non sono sempre evidenti (…). Un punto questo che pare essere molto vicino a quanto affrontato da Warburg «psico-storico», allievo attento alle lezioni di Lamprecht e Usener che lo avviarono allo studio della psicologia storica e del mito» (ivi, p. 86).   

 A volte gli accostamenti di Warburg tra immagini e forme d’arte appartenenti a contesti culturali lontani o le ricostruzioni storiche di alcune opere d’arte (Elisabetta Villari, I saggi di Aby Warburg sugli arazzi come “veicoli mobili”) ci sembrano oggi degli azzardi. Tuttavia la crescita negli ultimi vent’anni degli studi dedicati a Warburg, nonché dei saggi che si ispirano al suo approccio storico-antropologico (Claudia Cieri Via, Postfazione. Aby Warburg e il Nachleben delle immagini) mostra come la lezione warburghiana non sia affatto superata.