FRANÇOIS JULLIEN, De l'Être au Vivre. Lexique euro-chinois de la pensée

 

François Jullien, De l’Être au vivre. Lexique euro-chinois de la pensée, Paris, Gallimard, 2015

Recensione di Salvatore Grandone

François Jullien, filosofo, ellenista e sinologo, intraprende un viaggio nel campo di tensioni generato dall’avvicinamento del lessico della filosofia europea a quello della filosofia cinese. L’autore non si propone di individuare delle semplici differenze tra due complessi orizzonti concettuali che, per oltre un millennio, non sono mai entrati in contatto. La differenza presuppone infatti la hybris di un’identità comune, che si staglierebbe come fondo-limite verso cui ricondurre il diverso. «La differenza ha il suo destino legato all’identità (…). La differenza si comprende in relazione a un genere conosciuto in cui individua una specificazione (…)» (p. 278). Pensare lo scarto tra due culture così complesse significa invece ragionare  in termini di risorse in grado di dia-logare con l'impensato presente nelle nostre lingue. Le lingue indoeuropee e il cinese hanno delle strutture morfosintattiche non sovrapponibili – ad esempio la presenza dei pronomi nelle lingue indoeuropee e la loro assenza nella lingua cinese – che determinano a priori delle scelte decisive sul piano delle immagini del mondo e dell’uomo. Per Jullien la ricchezza e la profondità di tale scarto culturale diventano pienamente visibili con l’accostamento di alcuni lessemi chiave. Non è questa la sede per ripercorrere tutte le coppie individuate dall’autore. Sembra piuttosto utile partire da un'affermazione di Confucio (551-479 a.c.) che per Jullien è emblematica di un modo di pensare altro rispetto ai nodi concettuali intessuti, quasi nel medesimo periodo, dai filosofi greci – in seguito patrimonio comune della filosofia europea. In una delle massime di Confucio si dice: «Quattro cose il saggio non aveva: idea, necessità, posizione, io». Il commento di François Jullien è illuminante: «Infatti l’evidenza cinese è che «avere un’idea», o meglio avanzare un’idea, significa già lasciare le altre nell’ombra; privilegiare un aspetto delle cose a detrimento di altri e inabissarsi d’un colpo nella parzialità. Poiché ogni idea avanzata è nello stesso tempo una presa di posizione sulle cose, che impedisce di considerarle nel loro insieme, su un medesimo piano e allo stesso modo. Si è entrati nella preferenza e nel pregiudizio. Occorre infatti leggere la formula nella sua sequenzialità. Se si avanza un’«idea», ci imponiamo allora una «necessità» (…) da questa «necessità» a cui ci si attiene, risulta una ferma posizione a cui lo spirito si lega e che non può più evolvere; infine, da questo bloccarsi in una «posizione» emerge un «io»: io fissato ad una rotaia e dotato di un carattere» (p. 31).

 La filosofia occidentale si costruisce intorno ai concetti di io, idea, necessità/libertà, posizione. Il soggetto è  visto come un’isola separata dal mondo esterno, quest’ultimo rappresentato come una minaccia, un insieme di circostanze-contingenze spesso dannose. «Lungi dall’essere neutro (…) «circostanza» è un termine che, a torto, stabilizza e allo stesso tempo rende periferico il soggetto rappresentandolo come un’isola contro la quale si infrange il flusso mobile delle circostanze» (p.24). Che si tratti del saggio stoico, del cogito cartesiano che trova in se stesso la prima evidenza, o ancora dell’io kantiano, il soggetto ha ben presto assunto il rango di luogo privilegiato della riflessione filosofica europea. Tale direzione è stata segnata dalla struttura morfosintattica delle nostre lingue, da quelle categorie ontologiche specchio di un logos, culturalmente e storicamente situato, che pone al centro il sub-stratum. Per mettere in luce questo profondo limite del pensiero occidentale, Jullien prova a ripensare l’iniziativa del soggetto come potenziale di situazione (pp. 19-26), la libertà come disponibilità  (pp. 27-37), il metodo come angolazione (pp. 75-84)….Una coppia dopo l’altra  emerge una visione dell’uomo e del mondo che abita i contrari e percorre una strada presto abbandonata dalla filosofia europea, linguisticamente predisposta a pensare più l’Essere (Parmenide) che il Divenire (Eraclito). Tale mancanza non è però un ostacolo insormontabile che condannerebbe il pensiero occidentale a restare per sempre nell’identico –  o al massimo ad uscire dal medesimo per continuare a comprendere la differenza (Heidegger, Deleuze ecc.) in opposizione all’identico. È necessario piuttosto riscoprire il potenziale allusivo delle nostre parole. «Per cogliere la portata dell’allusivo, occorre comprenderne il termine a partire dalla sua composizione in latino: ad-ludere significa, in senso proprio, «giocare» intorno, «a prossimità». Come dei delfini si avvicinano e giocano vicino ad una nave, accedunt atque adludunt; o come il mare, dice in modo così poetico Cicerone (…), si «avvicina giocando» alla riva, litoribus adludit. «Fare allusione» conserva allora l’idea che la parola, sorgendo da più lontano, venga ad evolversi tanto più liberamente «presso». Già quindi nella retorica antica, l’allusione consiste nel fatto che il detto, in quanto lontano da ciò che si vuole dire, permette di provarne più intimamente il rapporto, senza imporlo» (p. 159).

La filosofia cinese si presenta in tal senso come una risorsa importante per affrontare da una prospettiva nuova le grandi questioni del pensiero occidentale. Non si tratta dunque di cadere (scadere) in un facile esotismo, ma di attivare un potenziale, di rendersi disponibili a quanto ancora di inascoltato vi è nelle nostre lingue per interrogare il Vivere.  

 N.B. Traduzioni dal francese in italiano a mia cura.