FABIO CARBONE, Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai

Fabio Carbone, Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai, Roma, Aracne, 2015

Recensione di Pasquale Vitale

Fabio Carbone, attraverso la figura di Enrico Berlinguer, ricostruisce la storia della sinistra italiana, focalizzando l’attenzione sul periodo che va dal 1947 al 1979 con un accenno al 1992, anno, quest’ultimo, che potremmo definire della “frana”, in cui il sistema clientelare posto in essere negli anni della prima Repubblica viene travolto dall’inchiesta denominata “Mani Pulite”. Nel maggio del 1947 Alcide De Gasperi formò un governo da cui furono esclusi i socialisti e i comunisti. Le elezioni del 1948 consegnarono il Paese alla DC, che deterrà la supremazia fino, appunto, al 1992. Con il 1948, fa notare Carbone, si inaugura il periodo della Restaurazione. Quanti credettero, sulla scorta della Resistenza e della vittoria sul nazifascismo, in una rottura radicale con il passato, dovettero arrendersi a riveder funzionari pubblici e magistrati compromessi con il regime tornare al proprio posto. L’Italia, nello scontro tra i due blocchi determinatisi con la guerra fredda, si collocò nell’orbita americana e della NATO. La politica economica di stampo liberista di Einaudi fu attuata a prezzo di enormi costi sociali: licenziamenti, perdita del potere di acquisto, morti negli scontri fra lavoratori. Fu proprio il miracolo economico della fine degli anni Cinquanta, determinato dagli aiuti del piano Marshall, a implicare importanti cambiamenti sociali e a favorire l’affermazione del centro-sinistra. In questo contesto, Fabio Carbone analizza il ruolo e la figura di Enrico Berlinguer, la cui formazione era impregnata di antifascismo e di anarchismo. Da giovane, a Sassari, fu incaricato di costituire un gruppo giovanile comunista; sul finire dell’estate del 1946 fu eletto segretario nazionale di Direzione del fronte della gioventù. Nel 1947, dopo lo scontro tra l’ala filocomunista di Nenni e la minoranza di Saragat, quest’ultimo fondò il PSI. De Gasperi, intanto, aprì la crisi, escludendo socialisti e comunisti dal governo: la pregiudiziale anticomunista degasperiana, fomentata dalle richieste di Truman di un governo liberal-moderato in Italia, era riuscita nell’intento di ghettizzare il PCI, complice anche la rottura tra quest’ultimo e il PSI consumatasi nel 1947. In tale contesto, il leader del PCI Palmiro     Togliatti, faceva valere il richiamo alla Costituzione, per la quale era stato eletto il primo parlamento italiano (cfr. p. 51).  Intanto, nel 1950, avvenne la consacrazione di Berlinguer come segretario della FGCI, che al tempo ruotava attorno alla cultura ideologica di Togliatti e Secchia intrisa del culto di Stalin e del mito dell’Unione Sovietica come terra di conquiste proletarie (cfr. p. 53). All’esperienza della segreteria della FGCI si associò, sempre nel 1950, la presidenza della Federazione mondiale dei giovani democratici creata nel 1945 dai sovietici. L’autore fa notare come proprio tale carica, ricoperta da Berlinguer tra il 1950 e il 1953, abbia fatto maturare in lui la consapevolezza di un imperialismo sovietico non finanziario, ma pericoloso quanto quello americano. Nel 1953, intanto, moriva Stalin e, nello stesso periodo, De Gasperi, per arginare l’avanzata delle destre, emanava la legge Scelba (1952) e, l’anno successivo, una legge elettorale passata alla storia come “legge truffa”, in quanto mirava a far ottenere i 2/3 del parlamento alla DC: si trattò di un vittoria di Pirro, in quanto le elezioni decretarono un discreto successo delle sinistre. I vertici delle sinistre italiane, però, dovevano affrontare questioni ben più delicate: Chruscëv, durante il XX congresso del PCUS, aveva reso instabili le fondamenta del mondo comunista, denunciando il culto di Stalin e i crimini da lui commessi (cfr. p 58). La destalinizzazione provocò la rivolta ungherese, repressa dall’URSS, il cui intervento fu giustificato dal PCI. Intanto, in Italia, la sconfitta degasperiana sulla legge maggioritaria chiuse la stagione del centrismo. L’apertura a destra del suo successore, Giuseppe Pella, creò difficoltà all’interno dei democristiani che non vedevano di buon occhio un’intesa con il MSI.  L’iniziativa fu presa, allora, da Fanfani, che, eletto nel 1958, fu il fautore di un’apertura a sinistra. In questo senso, Carbone descrive bene come la sinistra degli anni Sessanta si presentasse divisa, soprattutto perché Togliatti aveva una visione della società italiana, composta da una maggioranza contadina, una classe operaia modesta e un ceto medio artigiano, ferma agli anni Trenta e Quaranta (cit. p. 65). Tale “visiera” ideologica, prosegue Carbone, non permise, come accaduto nel 1956 con la rivolta ungherese, un’analisi lucida dell’economia nazionale. In questo scenario nel marzo 1962, nacque un governo di centrosinistra, un tripartito Fanfani IV, con DC, PRI, PSD e all’esterno il PSI con un PCI che manifestava una relativa apertura (cit. p. 74). L’anno 1964, però, è un anno cruciale: muore a Yalta Togliatti e nell’ottobre dello stesso anno giunge la notizia dell’estromissione politica di Chruscëv. In tale contesto Berlinguer, che intanto nel ‘67 è eletto a Montecitorio, si confronta e si scontra con i dirigenti sovietici, contrario agli aspetti deteriori del socialismo realizzato in URSS. Dopo i fatti di Praga, il vicesegretario aveva tracciato l’unico cammino possibile nel rilancio della prospettiva rivoluzionaria e internazionalista in forme e prospettive nuove, ovvero rispettose della sovranità popolare e di ogni partito comunista (cfr. p. 90). A rompere gli equilibri, però, sarà una bomba esplosa il 12 dicembre 1968 alle 16:32, presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Piazza Fontana, Milano. Era, afferma Carbone, “l’inizio dei segreti e dei misteri, della connivenza delle istituzioni, dell’infiltrazione ideologica” (cit. p. 101).  Intanto nel febbraio del 1969 era arrivato a Roma Nixon, Saragat gli aveva descritto il PCI come un partito dedito agli interessi del Cremlino e per questo motivo il presidente americano si era impegnato a contrastare i comunisti. In questo periodo, fa notare l’autore, si innescano forti intrecci fra servizi segreti e neofascisti per intercettare la svolta a sinistra. In altri termini, gli ambienti dell’estrema destra risposero con determinazione e brutalità alle ondate rivoluzionarie del Sessantotto e alle conquiste sindacali degli anni Settanta. Berlinguer, in questo difficile frangente, ricordava che la scelta di schierarsi con il governo non aveva come obiettivo allargare il centrosinistra, ma di superarlo, per contenere e conciliare tutte le forze contro la deriva a destra, in una sorta di rerum concordia discors. Il PCI si impegnava, in tal modo, ad abbandonare l’avversione per i monopoli e a costruire un’Europa democratica e socialista: siamo nel 1972, E. Berlinguer è eletto segretario del PCI. Nello scenario internazionale accade, però, un evento che segnerà molto i futuri progetti del neo segretario: il presidente cileno Salvador Allende si suicida per non consegnarsi nelle mani del golpista Pinochet, appoggiato dagli Stati Uniti. In occasione di tale drammatico evento, Berlinguer si accinse a scrivere le Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, delineando il primo e velato richiamo al “compromesso”. Del resto, anche Lenin aveva dovuto stipulare due compromessi: uno con l’impero tedesco nella pace di Brest-Litovsk (1918) e l’altro con le forze capitaliste con l’avvio della NEP. Nel 1975, durante un incontro tra Enrico Berlinguer e Santiago Carillo verrà coniato il termine Eurocomunismo, con il quale si rivendicava una linea politica differente da quella sovietica: l’accettazione degli istituti della democrazia borghese e il rifiuto della socialdemocrazia integrata nel sistema capitalistico. La strategia di Berlinguer portò i suoi frutti elettorali alle elezioni del 1976, ma per evitare pressioni internazionali, lo statista scelse di proseguire con la formula del compromesso e rinunciò di porsi come alternativa alla DC. Compromesso che fallisce con il rapimento del cosiddetto “criptocomunista”, ovvero il democristiano Aldo Moro, che pagò con la vita il tentativo di realizzare nei fatti il compromesso storico di Berlinguer (prima del rapimento di Moro, infatti, i governi Andreotti del ‘76 e del ‘77, ovvero rispettivamente il governo delle astensioni e delle convergenze, vedevano il PCI prima astenersi senza opporsi e poi collaborare con la DC). Dopo la morte di Moro, più che la DC o il PCI, seppe farsi interprete del cambiamento il partito socialista di Bettino Craxi, che manifestò fin da subito una sostanziale ostilità verso il PCI di Berlinguer (il cui compromesso con la DC -del resto- aveva posto ai margini il partito socialista) e un fiero liberismo. Secondo Fabio Carbone, proprio quel Craxi che predicava la modernizzazione dell’Italia, dimenticò del tutto la Questione Morale cara a Berlinguer e finì con l’essere travolto dall’inchiesta “Mani pulite” e da Tangentopoli, un termine che non a caso designa il passaggio dalla democrazia della polis greca alla sua degenerazione, dato che quel –poli divenne, in quel periodo, sinonimo di scandalo e corruzione.