MASSIMO LUIGI BIANCHI, Tramandare in filosofia. Böhme, Schelling, Heidegger

 

 

Massimo Luigi Bianchi, Tramandare in filosofia. Böhme, Schelling, Heidegger, Firenze, Leo S. Olschki, 2016

Recensione di Salvatore Grandone

 

Il saggio si presenta come una riflessione nella riflessione, «come un’interpretazione, e per di più come un’interpretazione di testi che sono a loro volta altrettante interpretazioni di testi» (p. 209). Il filo conduttore è infatti come i filosofi si appropriano e rielaborano la storia della filosofia. Il tema non è quindi un oggetto dai contorni ben precisi, ma un’azione, il “tramandare”, ossia l’ermeneutica alla base di un’autentica storiografia filosofica. Un rivolgersi al passato non “antiquario” non si limita a oggettivare e a descrivere i concetti della tradizione filosofica; tende piuttosto a «una creativa appropriazione senza escludere violente, ma anche feconde forzature» (Ibid.). È chiaro allora che il gioco di riflessione del filosofo sul filosofo, dei testi sui testi è destinato, in virtù del suo carattere violento, a generare molteplici slittamenti. Un’ermeneutica filosofica che vuole centrarsi fino in fondo nel proprio presente guarda al passato in vista del futuro, e sceglie come luogo privilegiato del proprio gesto interpretativo l’“altrove” in cui l’inizio (il passato) e la fine (il futuro) si congiungono nella domanda. Bianchi prende da Heidegger un’immagine suggestiva per descrivere il senso più profondo dell’interrogare-tramandare in filosofia.

«Ogni filosofia naufraga – afferma Heidegger –, ciò rientra nel suo concetto. L’intelletto comune da ciò conclude senza dubbio che quindi non vale la pena di filosofare, poiché per esso ha qualche valore solo ciò che dà un risultato tangibile. Il filosofo ne deduce al contrario l’indistruttibile necessità della filosofia, senza credere con questo che un giorno tale fallimento possa essere superato e la filosofia “portata a termine”. La filosofia è sempre compiuta quando la sua fine è e rimane ciò che è il suo inizio: domanda» (p. 147).

La ripresa del passato non ha l’obiettivo di “portare a termine” il gesto ermeneutico, cioè di provare a dire tutto, come se il classico fosse un contenitore di senso da svuotare. Una feconda interpretazione – è chiaro che qui storiografia e filosofia in parte coincidono, poiché la speculazione filosofica non può fare a meno di confrontarsi con la sua storia (p. 210) – è compiuta solo se naufraga, se si ricongiunge al suo inizio, alla domanda. Il naufragio è così l’immagine che identifica lo scarto incolmabile tra passato e presente della filosofia. Inoltre questa frattura è ad un tempo metafora del cammino del pensiero, che sembra, in apparenza, girare in tondo, ma in realtà nel suo ripiegarsi trova la fonte inesauribile che alimenta la propria interrogazione.

Tale modo di intendere il “tramandare” in filosofia è ben visibile nei tre capitoli che compongono il volume:  Böhme,  Böhme in Schelling, Schelling in Heidegger.

Il primo capitolo affronta la ripresa-riappropriazione del neoplatonismo nel pensiero di Böhme. Uno dei grandi problemi della filosofia antica – che trova in Plotino una formulazione rigorosa –  è il rapporto Uno-molteplice. Se il percorso dal molteplice all’Uno è la strada più battuta dai filosofi, quella inversa dall’Uno al molteplice desta di gran lunga più problemi. È noto come Plotino non riesca fino in fondo a spiegare come dall’Uno, in sé perfetto – posto al di là dell’essere –, possano derivare i molti. Nelle Enneadi si ricorre a diverse immagini per rendere intuibile la derivazione dei molti dall’Uno, ma pochi sono i luoghi (e comunque non soddisfacenti) che affrontano il problema sotto l’aspetto concettuale. Ora, nonostante l’apparente fedeltà all’orizzonte neoplatonico, in Böhme il problema trova una soluzione originale, per certi versi “violenta” – nell’accezione heideggeriana di un riappropriarsi che va oltre la lettera –, perché si introduce all’interno dell’Uno l’elemento del volere. «Nel quadro della concezione böhmiana – osserva Bianchi – l’assunzione di Dio come un nulla che respinge da sé ogni predicato risulta in fondo un’astrazione, o meglio: questo nulla è impensabile come tale se non si pensa al contempo qualcos’altro che necessariamente si aggiunge, e cioè un volere, quello, precisamente, di cessare di essere un nulla e rendersi qualcosa. L’Ungrund, il privo di fondamento, vuole sé, ovvero si vuole come alcunché di reale e di effettivo» (p. 5).  La presenza del volere in Dio (l’Uno) rende l’Ungrund böhmiano dinamico, e ne determina il suo dispiegamento in Gestalt. Ogni Gestalt costituisce una tappa-processione del suo movimento che giustifica in una prospettiva nuova, rispetto al pensiero antico, la nascita del molteplice.

Il dinamismo volitivo dell’Ungrund rappresenta, come è noto, il punto di partenza dell’idealismo tedesco. Non è dunque un caso trovare in Schelling – come l’autore dimostra nel secondo capitolo – la riappropriazione idealistica del pensiero di Böhme. «Venuto a contatto con i testi böhmiani Schelling vi viene scoprendo una visione e un orientamento di fondo non privi di affinità con quelli dei suoi scritti» (p. 96). «Nel volere – continua Bianchi – di cui egli [Böhme] aveva munito il Dio non ancora attuale come della sola potenza capace di conferire realtà oltre che a lui stesso anche a tutto ciò che egli non è, Schelling disponeva di ciò il cui concetto si prestava, al di là di qualsiasi procedimento puramente logico-deduttivo, a mediare tra l’Assoluto e il condizionato, l’infinito e il finito» (p. 98). Nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana il confronto di Schelling con il pensiero di Böhme raggiunge il suo punto più alto sia sotto l’aspetto teoretico sia dal punto di vista ermeneutico. Schelling non solo si appropria in modo originale del Dio volente, ma anche reinterpreta e adatta alcuni dei momenti del farsi molteplice del Ungrund böhmiano alla sua visione dello storicizzarsi dell’Assoluto. Così «la filosofia delle Ricerche rimane di quella böhmiana una libera e creativa trasformazione. Ciò che è tramandato non è ripreso tale e quale ma viene accolto assieme a una sollecitazione alla luce di un proprio progetto» (p. 103).

Qualcosa di analogo avviene nella ripresa heideggeriana di Schelling – è il tema del terzo capitolo. In Heidegger il confronto con la tradizione filosofica è un vero proprio leitmotiv che è presente fin dalle ricerche su Duns Scoto. Per Heidegger la filosofia occidentale è dominata – se si esclude la breve parentesi dei presocratici – da un progressivo oblio dell’essere e dalla riduzione dell’essere all’essente. Con la filosofia moderna, e in particolare con l’idealismo tedesco, comincia l’identificazione di Dio e volontà che culminerebbe nella volontà di volontà di Nietzsche, il filosofo in cui l’oblio dell’essere raggiungerebbe il suo apice. Questa lettura della storia della filosofia è argomentata da Heidegger lungo l’intero arco della sua produzione filosofica attraverso un approccio che non mancherà di fare ‘’violenza’’ (nel senso di un tramandare creativo e produttivo) ai filosofi, senza per questo interpretarli in modo unilaterale. In tale prospettiva un caso interessante è l’esegesi heideggeriana delle Ricerche di Schelling. Per Bianchi «ciò che si incontra addentrandosi nelle pagine heideggeriane su Schelling è una trasfigurazione del tramandato la quale risulta a sua volta trasfigurata. Posto l’Essere come l’autentico, ancorché inapparente, argomento del trattato schellinghiano, Heidegger si adopera a riesporlo in forma perspicua» (p. 170). Nell’analisi heideggeriana Schelling è riletto alla luce dell’onto-teologia, un inquadramento che non riduce però il filosofo idealista a un semplice precursore di Nietzsche. In Schelling Heidegger trova espressa in modo ancora immatura la possibilità di nuovo inizio della filosofia e alcuni problemi della propria riflessione. Nel movimento dell’Assoluto schellinghiano – riformulato nelle Ricerche alla luce della lettura di Böhme –, Heidegger vede – sono le parole di Heidegger citate da Bianchi – «quel rientrare con sempre maggiore intensità in se stesso con il venir fuori sempre più luminoso delle unità articolate» (p. 176). Anche se il linguaggio è per Heidegger inadeguato, il filosofo di Friburgo vede nel Dio di Schelling l’intuizione profonda del concetto di “esistere” elaborato in Essere e tempo. Heidegger, come prima di lui Schelling e Böhme, tramanda quindi la filosofia in vista dell’altrove del proprio filosofare, che, a sua volta, partecipa e vive della riflessione-rifrazione dell’andare-oltre di ogni autentica ricerca filosofica. In conclusione il volume di Bianchi è un testo ricco, denso, che invita a interrogare il modo in cui i filosofi leggono i filosofi, indicando allo stesso tempo, per chi non è filosofo ma solo storico della filosofia, una strada feconda per addentrarsi nelle infinite trame della storia della filosofia.