NICOLETTA CAPOTOSTI, La competenza interculturale nella professione docente

 

Nicoletta Capotosti, La competenza interculturale nella professione docente, Roma, Aracne, 2020.

 

Recensione di Salvatore Grandone

 

Frutto della rielaborazione di una tesi di dottorato in Antropologia, il volume – arricchito dalla prefazione della professoressa Alessandra Ciattini – affronta una questione cruciale della scuola italiana. Capotosti si interroga sulla dimensione interculturale della scuola italiana, sulle strategie che il MIUR, gli enti locali, le istituzioni scolastiche e i docenti attuano per realizzare una scuola inclusiva. Tale domanda ne sottende molte altre di carattere teorico e pratico. Da una parte occorre infatti definire il concetto di competenza interculturale, dall’altra è necessario indagare gli strumenti normativi e le prassi in uso nelle scuole. La ricerca di Capotosti si struttura quindi su due macrolivelli. Il primo è di ordine teorico-normativo, in cui si indaga un complesso orizzonte che spazia dal quadro normativo, Le linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (2014) – documento che riprende il testo programmatico La via italiana all’intercultura (2007) –, al concetto di interculturalità e a quello di competenza interculturale. Il secondo si declina invece come un’articolata ricerca-azione in cui Capotosti documenta il dialogo intrattenuto con i docenti, le scuole e gli enti locali del territorio umbro al fine di effettuare una radiografia, per così dire, della “prassi” interculturale. La distinzione teoria-prassi è però solo funzionale a una più agevole lettura del volume, perché sul versante operativo i due aspetti sono strettamente legati. Non si possono infatti realizzare delle buone strategie di accoglienza senza comprendere i principi e gli obiettivi di un’azione educativa in ambiente interculturale. D’altro canto, senza l’adeguata formazione del corpo insegnante e l’indicazione di concrete modalità di intervento, anche l’adozione sul versante normativo del modello teorico più avanzato di pedagogia interculturale resta lettera morta. Nella scuola italiana è molto forte lo scarto tra quanto indica la norma – in modo comunque non prescrittivo, visto che il MIUR si è limitato a fornire solo delle linee guida – e la situazione reale dell’accoglienza e dell’integrazione degli alunni stranieri. Dalle interviste ai docenti e agli operatori locali, dall’analisi dei dati statistici e dai problemi riscontrati, emerge come in molte scuole del territorio umbro – ma il dato è rappresentativo di una situazione che riguarda tutta l’Italia – i dirigenti scolastici e gli insegnanti gestiscano spesso con approssimazione l’inserimento degli alunni stranieri nelle classi. L’assenza di figure preposte, come quella fondamentale del mediatore culturale, e di iniziative efficaci per formare nei docenti una solida competenza interculturale non consente la pianificazione di azioni coordinate. Nei casi migliori prevalgono l’improvvisazione e la buona volontà di singoli attori (docenti e/o dirigenti), nei casi peggiori dei protocolli di accoglienza inattuati – il protocollo di accoglienza è il documento che ogni scuola è tenuto a redigere in cui si indicano le strategie da mettere in atto per accogliere e integrare gli alunni stranieri. Eppure, osserva bene Capotosti, la competenza interculturale non è affatto “una” dimensione accanto alle altre della professione insegnante. Leggiamo questo passo ispirato tratto dall’Introduzione:

«Ogni insegnante è - per definizione - un mediatore interculturale: per operare egli deve infatti "connettersi" con l'orizzonte di senso degli studenti; deve cioè abbattere quante più possibili barriere di ostacolo alla comprensibilità di ciò che propone ai ragazzi. Il contesto classe - da questo punto di vista - è un insieme variegato e dinamico di culture, competenze comunicative, forme di vita e giochi linguistici dove ciascuno – parafrasando Wittgenstein - sa seguire la regola (del proprio orizzonte di senso) ma non sa enunciarla. La capacità di connessione che è richiesta ai docenti impone loro di sapersi orientare in quel groviglio stratificato di logiche - imperfette ma funzionanti – composto dai codici comunicativi presenti in classe, rompendone il confine per farne emergere le subculture e infine le singole soggettività». (p. 32)

«Il docente è per definizione un mediatore interculturale»: essere docenti significa infatti comunicare con culture e sub-culture diverse, in cui entrano in gioco non solo l’appartenenza etnica, ma anche il divario generazionale, l’estrazione sociale, gli spazi urbani abitati. Ogni alunno è portare di una cultura densa di valori glocali e globali con cui il docente deve dialogare, se vuole instaurare un’azione educativa efficace. Con questo non si vuole certo diluire il concetto di interculturalità, come incontro tra culture radicalmente altre, a una categoria vuota e onnicomprensiva. Si vuole piuttosto sottolineare come l’interculturalità abbia diverse anime e che rinunciare a comunicare con l’estraneo nella sua forma più disarmante mina anche la capacità di cogliere e di avvertire quanto di estraneo possa esserci in ciò che è a noi familiare. In tal senso le parole del filosofo Bernard Waldenfels sembrano quasi fare eco a quelle di Capotosti:

«Il problema dell’estraneo comincia con la sua nominazione. Non c’è niente di più consueto della parola fremd, estraneo, e delle sue variazioni e derivazioni quali Fremdling, forestiero, Fremde, estero, Fremdsprache, lingua straniera, Fremdeln, lo stranirsi del bambino davanti agli estranei, Entfremdung, alienazione, oppure Verfremdung, estraniazione». (B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, Milano, Raffaello Cortina, 2008, p. 132)

  Sono molti i modi dell’estraneo che il docente può incontrare: a volte l’estraneo è l’alunno straniero con la sua cultura e la visione del mondo propria della sua lingua madre; altre, è l’alunno “stranito” che davanti a un contesto classe nuovo si sente privo di punti riferimento attraverso cui comunicare; altre ancora, è l’alunno alienato ed estraniato, che si percepisce come inadeguato e incapace di entrare in un contatto autentico con gli altri. Non dimentichiamo inoltre che questi livelli di estraneità spesso si sovrappongono, rendendo il dialogo educativo uno spazio dinamico che mette in gioco molteplici competenze del docente. Capotosti ha dunque pienamente ragione nell’insistere nel suo volume sulla centralità del docente mediatore, costruttore di ponti, e sull’importanza di investire sulla formazione e sulla razionalizzazione delle azioni educative volte all’inclusione degli alunni stranieri. L’antropologia e la pedagogia interculturale non possono restare ai margini della scuola. Entrambe devono fare parte integrante del curricolo docente. Certo l’insegnante non può essere un “tuttologo”, ma è necessario allargare ulteriormente le basi della sua formazione. Alle conoscenze pedagogiche, psicologiche e didattiche, bisogna affiancare quelle antropologiche e glottodidattiche. Solo un pensiero complesso può affrontare le sfide di una società complessa, e la scuola deve essere un fertile terreno di incontro tra discpline e competenze diverse.