D. GIOVANNOZZI - M. VENEZIANI, "Locus-Spatium"

Locus-Spatium, a cura di Delfina Giovannozzi e Marco Veneziani, Firenze, Olschki, 2013

Recensione di Salvatore Grandone

Il testo raccoglie diciannove contributi che costituiscono il frutto denso e articolato di un colloquio internazionale (Roma, 3-5 gennaio 2013). Gli studi affrontano, da angolature diverse e seguendo un andamento cronologico, l’evoluzione del concetto di spazio dall’antichità fino a Fichte.

I primi due articoli (Francesco Fronterotta, Luogo, spazio e sostrato ‘spazio-materiale’ nel Timeo di Platone e nei commenti al Timeo, pp. 7-42; Enrico Berti, Il luogo dei corpi secondo Aristotele, pp. 43-62) delineano l’orizzonte di senso che permea il concetto di spazio nella filosofia antica. Nel Timeo di Platone lo spazio costituisce un terzo genere di cose, intermedio, in quanto «presta la componente spaziale e materiale» (p.15) nella quale si generano le cose della realtà sensibile (secondo genere, soggetto a corruzione), imitazioni dei modelli intelligibili (primo genere). Lo spazio in Platone è quindi materiale e indeterminato. Si presenta infatti come una «materia molle che si lascia plasmare in fogge diverse» (ibid.) e pertanto coesistono al suo interno tratti «“locali” o “spaziali” e “materiali” o “costitutivi”»(p. 18).

In Aristotele lo spazio è separato dalla materia e coincide con il primo limite immobile del contenente (Phys. IV 4). Aristotele non perviene però solo alla distinzione tra corpo e limite interno che lo contiene, perché individua la stretta relazione tra luogo e movimento locale. «Se non ci fosse il luogo, non ci potrebbe essere il movimento locale, che è appunto il cambiamento di luogo, quindi non ci sarebbe nessuno tipo di mutamento, non ci sarebbe la natura, non ci sarebbe la stessa fisica» (p. 53).

Il terzo e quarto contributo (Luca Simeoni, Il lessico dello spazio in Lucrezio, pp. 63-72; Luciano Canfora, Χωρίον ἐκλιπές: tra Lucrezio e Tucidide, pp. 73-80) approfondiscono l’apporto lessicale di Lucrezio alla nozione di spazio e si indica, attraverso Tucidide, una prima valenza metalinguistica.

Nel De rerum natura sono tradotte in modo originale alcune delle categorie spaziali della filosofia epicurea e indirettamente di quella aristotelica. Di fondamentale importanza è l’espressione lucreziana locus intactus che supera, riprendendo Epicuro, «la pregiudiziale aristotelica  contro il vuoto» (p. 68) e si interseca con il termine “inane”. Per Lucrezio «il vuoto può essere pensato come sussistente di per sé e questo per il motivo che non agisce né patisce, ma può solo consentire ai corpi il passaggio attraverso se stesso. In Lucrezio allora vacuum non ha il significato di vuoto assoluto, spazio del tutto privo di materia, come invece spesso si traduce. (…) Nel De rerum natura, esso designa il vuoto non come ciò che è privo di corpi, ma come (…) realtà che non possiede corpo materiale» (pp. 68-69).

La ricezione di Lucrezio in alcuni intellettuali del Rinascimento manifesta un’interessante oscillazione semantica. Nel Neptuni Lacunas di Girolamo Borgia il termine «lacuna indica il vuoto ma anche il contenitore di un “pieno” da integrare» (p. 78). In questo modo lo spazio lucreziano si ricongiunge all’espressione di Tucidide Χωρίον ἐκλιπές che rinvia ad «uno spatium historicum rimasto abbandonato, un “vuoto” nell’ideale catena delle narrazioni storiche» (ibid.).

Il quinto saggio (Gaetano Lettieri, “Fuori luogo”. Topos atopos dal Nuovo testamento allo Pseudo-Dionigi, pp. 81-148) indaga le prospettive sul concetto di spazio dischiuse dalla religione cristiana. In ambito protocristiano e patristico l’evento delle rivelazione o della salvezza si dà come fuori-luogo «o, meglio, come se la salvezza si desse nel luogo (dal Tempio alla chiesa, ai sacramenti, alla stessa teo-logia) soltanto come fuoriuscita dal luogo, come forzatura della sua inevitabile pretesa di collocare la presenza salvifica di Dio» (p. 82). Il topos cristiano è dunque «assolutamente paradossale» (p. 84), in quanto si manifesta come atopico e estatico. «Il cielo ormai vuoto diviene il luogo paradossale dell’evento avveniente, della sospensione di qualsiasi collocazione: il luogo del Risorto è il tempo imprevedibile dell’irruzione di un altrove che è, appunto, apocalitticamente fuori luogo, fuori tempo, controtempo» (pp. 84-85).

La declinazione teologica del luogo è ripresa nei due articoli successivi.

Ne I Loci della mente: l’essenza dello spazio nel primo Medioevo (e in Dante Alighieri) (pp. 149-194) Giulio D’Onofrio parte da alcuni versi del XXVII canto del Paradiso (vv. 97-102 e vv. 109-114) per delineare la rappresentazione medievale della Mente divina come “dove” supremo, nel senso di «determinazione intelligibile pura, onnicomprensiva e insieme distintiva non di una o poche realtà alla volta, bensì di tutti i possibili luoghi reali» (p. 151). Dante definisce l’empireo come ambito celeste più ampio al cui interno sono inclusi e girano tutti gli altri cieli, ma non gli conferisce un’estensione corporea (ibid.), riprendendo una consolidata tradizione che prende le sue mosse da Giovanni Scoto Eriugena.

Pasquale Porro (Il luogo sotto processo. La condanna del 1277 e il problema della localizzazione delle sostanze separate nel XIII secolo, pp. 195-219) analizza i risvolti dottrinali sul piano delle sostanze separate. L’autore si sofferma soprattutto sul problema della localizzazione degli angeli e delle loro operazioni. Nel Medioevo  l’angelologia non costituiva «solo una specie di laboratorio epistemologico: i maestri scolastici credevano realmente all’esistenza di angeli e demoni» (p. 219). Le discussioni, spesso molto accese, su tali questioni hanno sicuramente contribuito a mettere tra parentesi alcuni aspetti della fisica aristotelica con «effetti anche di lunga durata (…) sulla storia successiva della nozione di locus» (ibid.).

Dall’ottavo contributo si intraprende l’analisi del concetto di luogo nell’età moderna.

Nel saggio di Riccardo Pozzo (Loci communes: Agricola, Latomus, Melanchthon, La Ramée, Cano, Martini, pp. 221-236) il luogo è colto non solo sotto l’aspetto ontologico, ma anche sotto il profilo epistemologico. In altri termini «la pretesa che i loci abbiano riferimento alla realtà porta con sé la pretesa alla costituzione di un sistema topico diretto alla comprensione concettuale dell’essere» (p. 236). Alla “fisica” dei luoghi si affianca una “topica” mentale, dove lo spazio diventa uno strumento per ordinare e comprendere le cose.

Lo studio di Marco Lamanna (Topos e Tropos: Ramo, i ramisti e le controversie eucaristiche nella Germania riformata,pp. 237-248) ricostruisce invece alcuni snodi significativi delle controversie sull’eucarestia in ambiente riformato. Marco Lamanna riprende le tesi principali di Lutero, di Zwingli e dei calvinisti sull’eucarestia, concentrando la propria riflessione sul significato del pronome dimostrativo Hoc e della copula est nell’espressione “Hoc est corpus meum”. Il confronto tra le diverse tesi arricchisce la comprensione del luogo come “tropos” e ne indica quindi alcune possibili accezioni metaforiche.

Massimo L. Bianchi (Il pensiero di Dio come luogo in Valentin Weigel e le sue basi dottrinali, pp. 249-267) scandaglia l’intreccio luogo teologico e luogo fisico-geografico negli scritti di Valentin Weigel. Attraverso «l’esposizione di quanto ha bisogno l’uomo per orientarsi nel mondo», il pastore luterano vuole introdurre al pensiero di come orientarsi «nella dimensione dello spirito», destando la consapevolezza «del vero luogo natio, il quale non può essere di questo mondo» (p. 251).

 La riflessione di Vincenzo De Risi su Francesco Patrizi (Francesco Patrizi e la nuova geometria dello spazio, pp. 269-327) introduce alle riflessioni scientifiche sul concetto di spazio che condurranno i filosofi del Seicento a rappresentarlo come un’estensione puramente geometrica priva di determinazioni materiali e qualitative. In Francesco Patrizi «lo spazio è (…) una sorta di estensione pura che non tollera altre determinazioni se non quelle quantitative (e dunque geometriche): esso è (…) quantità determinata e in atto – ma quantità di nulla» (p. 297).

Jean-Robert Armogathe riprende e rilancia il concetto moderno di spazio (Sémantèse de spazium-locus chez Descartes, pp. 329-343), esaminando la sua evoluzione nel pensiero di Cartesio. L’autore arriva alla seguente conclusione: «Fin dalle Regulae, Cartesio dà per scontato che ogni corpo è esteso, e che non esiste né lo spazio immaginario, né il vuoto. Il suo vocabolario è però ancora incerto, e dispone di una ampia gamma di termini. Restringe la sua libertà lessicale nel suo Monde, avendo ricorso a termini scolastici. Su questo punto, come su altri concetti, le Meditationes e soprattutto le Réponses costituiscono l’occasione di rinsaldare il proprio campo lessicale, che diventa più ridondante.(…) I Principia segnano invece una certa regressione, come se la preoccupazione pedagogica conducesse Cartesio a riutilizzare il vocabolario scolastico o, per essere più precisi, a reinserirlo nel proprio discorso» (pp. 342-343 – tr. it. a mia cura).

Claudio Buccolini completa idealmente la riflessione su Cartesio attraverso Mersenne (Dallo spazio immaginario all’empireo: Locus/Spatium in Mersenne, pp. 345-411). «La riflessione teologica sul rapporto fra geometrica e spazio costituisce uno dei punti di originalità e di specificità delle riflessione di Mersenne, proprio perché sorge non più da dottrine tradizionali o da riflessioni vuoi neoplatoniche vuoi pitagorizzanti di culture sia tradizionali sia rinascimentali, ma dalla collaborazione con matematici e geometri di avanguardia, che lavorano sull’algebra, sulle coniche, sulla teoria dei numeri, e dagli interessi per la fisica corpuscolare e meccanica di Galilei e Descartes» (p. 349). Pertanto «Mersenne cerca nuove sintesi fra scienza, filosofia e teologia. Lo spazio non è più immaginario, ma solido geometrico, pieno di materia sottile o luce. L’unificazione della fisica del luogo e dello spazio avviene non più sul piano della teoria del moto o della caduta dei corpi, ma sul piano anche teologico dell’unificazione della fisica della luce» (p. 411).

Rimanendo nel Seicento, Martine Pécharman si sofferma sulla costruzione della dottrina dello spazio in Hobbes (La construction de la doctrine de l’espace chez Hobbes, pp. 413-451). L’autore analizza in particolare il concetto di spazio immaginario. «Lo spazio in quanto tale (…) è designato da Hobbes come la struttura indispensabile dell’immagine nello spirito, in altri termini, come ciò che è costitutivo della natura stessa d’immagine di ogni immagine. (…) Lo spazio non è tanto una parte dell’immagine, quanto il tutto dell’immagine come immagine. Se un’immagine non fosse prima di tutto uno spazio nello spirito, non sarebbe possibile alcuna rappresentazione, né di un modo determinato della quantità (come la figura), né di una certa qualità sensibile (come il colore)» (p. 423. – tr. it. a mia cura).

Daniel Garber (Vacuum Boylianum, pp. 453-465) descrive il concetto di vuoto nella riflessione filosofico-scientifica di Robert Boyle. Per Boyle il vuoto è un semplice spazio per fare esperimenti (p. 459) e pertanto assume una connotazione eminentemente pratica. Il vuoto è  uno spazio creato da macchine e non qualcosa che si trova in natura (p. 465).

Mario Sina amplia l’analisi del concetto di spazio nella filosofia empirista prendendo spunto da Locke e Berkeley (Spazio e luogo in Locke e Berkeley, pp. 467-505). In Locke «l’idea di corpo e di spazio sono idee distinte» e inoltre l’idea di estensione è separabile dall’idea di impenetrabilità» (p. 490). Lo spazio si definisce qui come «l’idea della possibilità dell’esistenza dei corpi» (p. 492). Berkeley, dal suo canto, critica Locke e ritiene – l’autore dell’articolo riprende l’analisi di Le Clerc, contemporaneo di Berkeley – che né l’estensione astratta, né quella visibile sono l’oggetto della geometria (p. 504).

Roberto Palaia esamina i termini locus-lieu e spatium-space in Leibniz (Locus e Spatium in alcuni scritti leibniziani, pp. 507-518). Per il filosofo tedesco «il luogo dei corpi e lo spazio sono intrinsecamente relazionati» (p. 515). Non si devono quindi immaginare due estensioni (una astratta e l’altra concreta) in quanto il concreto è tale solo in virtù dell’astratto (ibid.).        

Hansmichael Hohenegger riprende la valenza metalinguistica del concetto di spazio – già presente in alcuni studi della raccolta – e ne mette in rilievo la portata che assume nel pensiero kantiano (La terminologia della spazialità in Kant, pp. 519-580). La terminologia kantiana della spazialità presenta una valenza teorica e metateorica. Da un lato Kant riflette sullo spazio, dall’altro si serve dello spazio come risorsa di metafore per orientarsi nel pensiero. «La ragione può orientarsi nel pensiero (…) solo secondo un principio soggettivo del giudizio, che è il bisogno della ragione» (p. 577).

L’articoli di Wayne Martin su Fichte (Fichte’s Deduction of pragmatic space, pp. 581-587) chiude il volume. L’autore analizza come lo spazio sia in Fichte dedotto a partire dalla relazione degli oggetti e dei soggetti, connotandosi quindi geometricamente e politicamente.  

Molte sono quindi le tracce offerte dal volume per comprendere la nozione di spazio nell’arco della sua complessa evoluzione. Gli autori delineano le molteplici sedimentazioni del termine da quelle materiche a quelle locali, da quelle teologiche a quelle geografiche e geometriche, da quelle scientifiche a quelle epistemologiche e metalinguistiche. Spesso tali dimensioni si intrecciano, generando un groviglio che il testo ben districa. Si forniscono così al lettore numerose linee guida per cogliere la portata di un concetto-strumento del pensiero tanto complesso quanto affascinante.