FEDERICO LAUDISA, Albert Einstein e l'immagine scientifica del mondo

Albert Einstein e l’immagine scientifica del mondo

 

Federico Laudisa, Albert Einstein e l’immagine scientifica del mondo, Roma, Carocci, 2015.

Recensione di Salvatore Grandone

Il saggio analizza il rapporto tra filosofia e scienza nel pensiero einsteiniano. L’autore evita i facili riduzionismi (della filosofia alla scienza o viceversa) e mostra allo stesso tempo come la parabola epistemologica della riflessione di Einstein non sia inquadrabile come mero passaggio dall’operazionismo di matrice machiana ad una sorta di realismo metafisico conservatore che avrebbe impedito la comprensione della portata filosofico-scientifica della meccanica quantistica. «La rilevanza del pensiero filosofico ed epistemologico di Einstein – e la stretta e organica interazione scienza/filosofia nel suo lavoro – rischiano non di rado di essere distorta da un’immagine “schizofrenica” della sua opera (…). Nella prima parte della sua vita Einstein è unanimemente rappresentato come il prototipo dello scienziato innovatore e intellettualmente coraggioso, capace all’occorrenza di modificare le categorie stesse con cui il pensiero scientifico organizza la conoscenza del mondo. (…) Dagli anni Venti del Novecento in poi – per effetto principalmente degli sviluppi della meccanica quantistica – Einstein inizia a diventare quasi improvvisamente, nella rappresentazione che la comunità scientifica alimenta, uno scienziato conservatore, incapace di cogliere in tutta la loro portata le conseguenze rivoluzionarie della nuova fisica» (p. 12). Per cogliere l’originalità dell’epistemologia einsteniana occorre per Laudisa entrare nella fisica di Einstein e vedere come lo scienziato abbia ripensato, sul piano filosofico, le conseguenze delle proprie scoperte. L’avvicinamento del giovane Einstein al pensiero di Mach va ad esempio problematizzato alla luce delle questioni poste dalla teoria della relatività e non nella prospettiva di un adattamento della relatività alle coordinate operazioniste. «La valutazione di Einstein sull’eredità scientifica di Mach è sempre stata ambivalente ed equamente divisa tra riconoscimento di una profonda influenza sul piano fisico e di un dissenso altrettanto profondo sulla metodologia e la filosofia della scienza» (p. 19). Einstein non condivide infatti la tesi che i concetti della scienza siano riducibili «a funzioni psicologiche primitive» in grado di adeguarsi in modo più o meno efficace al mondo naturale. La “psicologismo”, come del resto un ingenuo realismo, non appartiene al pensiero di Einstein che preferisce piuttosto indagare ad un tempo lo scarto e la reciproca implicazione di teoria ed esperienza. Tra le due sussiste per Einstein un inevitabile salto, in quanto ogni teoria costituisce sicuramente una reinterpretazione creativa dell’esperienza. D’altra parte l’esperienza pone dei vincoli alle teorie e può metterne in dubbio la loro validità d’insieme, mentre risulta «compatibile con svariati “blocchi” di teorie» (p. 31). In altri termini il rapporto tra teoria ed esperienza non va letto come una progressivo coincidenza del pensiero alla realtà che avrebbe il suo fondamento in una aproblematica identità di fondo (pensiero-essere). Si tratta piuttosto di una relazione dialettica che conduce Einstein ad un atteggiamento epistemologico affine al razionalismo critico di Popper: «risulta profondamente einsteiniana l’idea che la natura congetturale delle teorie possa felicemente convivere con l’aspirazione a costruire descrizioni vere del mondo. Non abbiamo cioè garanzie granitiche che le reti che lanciamo sulla realtà (…) trattengano qualcosa di solido quando le ritiriamo, ma dalla mancanza di garanzie non segue in alcun senso necessario che sia irrazionale credere alla possibilità che i nostri tentativi catturino effettivamente frammenti di realtà» (p. 60). La diffidenza di Einstein nei confronti della fisica quantistica non è allora dovuta all’atteggiamento conservatore di uno scienziato ormai anziano, quanto alle pregiudiziali conseguenze sul piano epistemologico della nuova fisica (del resto largamente debitrice nei confronti della relatività ristretta e generale). Einstein scorge infatti in alcune dichiarazioni di Heisenberg, Planck e Bohr una pericolosa deriva “strumentalista”, in cui la teoria prende il sopravvento sull’esperienza e sembra completamente sostituirsi ad essa. Dall’essenzialismo di Galileo o Newton – che pretendevano spiegare l’essenza ultima della natura – si passerebbe ad un puro relativismo che consegna alla teoria il primato e persino il diritto di costituire l’esperienza. Einstein si allontana da entrambe le posizioni, perché si risolvono in ultima istanza in altrettante “ideologie” che ingabbiano la ricerca scientifica. A distanza di molti secoli Einstein sembra in conclusione riprendere in modo originale e profondo all’interno della riflessione scientifica del Novecento il gesto critico di Platone che superò l’ontologia di Parmenide senza per questo cadere nel relativismo dei sofisti. «Se le teorie einsteniane ristrutturano profondamente l’immagine del mondo naturale, è altrettanto vero che la rappresentazione del lavoro teorico (tanto scientifico quanto filosofico) che Einstein difende per tutta la vita ha profondi elementi di continuità con un ideale classico di ricerca scientifica: un ideale nel quale lo scienziato è pur sempre alla ricerca della struttura e delle leggi fondamentali di un mondo dato e indipendente da noi e che ha poco a che spartire con certi romanticismo resi popolari da tanta divulgazione, vecchia e nuova, in particolare sulla meccanica quantistica» (p. 113).